Va molto di moda dire, scrivere, affermare che la crisi è “incomprensibile”. Rocco Casalino, con gli spin doctors dell'avvocato Conte, ha puntato tutta la comunicazione istituzionale su questo concetto semplice e diretto, nella speranza di farlo passare senza discussione. Ed infatti è passato. Tutti dicono che la crisi è incomprensibile: media, social, uomini, donne, preti, tutti. Anche persone intelligenti, anche persone in buona fede, sinceri democratici, colti e raffinati pensatori, davvero affezionati alle sorti del Paese. “Tutti dicono: I love you!” (Woody Allen, 1996). Vogliamo però fare un piccolo passo in avanti? O indietro, fate voi. Cosa significa “incomprensibile”? La lingua italiana suggerisce che la crisi sarebbe molto difficile o impossibile da comprendere, da inserire in un corretto e logico ragionamento. E cosa c’è da comprendere e razionalizzare? Le sue motivazioni? Il suo svolgimento? I possibili (ed incerti) esiti? Le sue possibili (e nefaste) conseguenze? Di preciso, cosa NON si capisce? Sono state dette parole a milioni, scritti articoli a tonnellate, in TV, in radio, sui social, dal vivo, nei bar, nei mercati rionali, dappertutto, e ancora non si capisce? Ma siamo diventati tutti scemi? Oppure è solo un banale modo di dire, un vezzo retorico, per far intendere che la crisi sarebbero surrettizia, vacua, non condivisibile, anzi condannabile? E quindi incomprensibile per persone normodotate? Sarebbe quindi una crisi da pazzi? Siamo arrivati a tanto, per davvero? Non scherziamo, per favore! Si può dare il giudizio che si vuole, si potranno avere opinioni le più diverse, ma questa crisi tutto è fuorché incomprensibile. Sarà grave, sarà pure pericolosa, ma non incomprensibile. È evidente che ci sono realtà che non si sopportano, non si accettano, rivendicano supremazia. E in un governo di coalizione, se manca la disponibilità a cooperare, è impossibile andare avanti. È vero: tutti dicono di volere il bene del Paese, di volere un Paese profondamente riformato nel senso dell’efficienza, della modernità, del progressismo, e allora? Dove sono le differenze? Semplice: chi ha in mano il volante (o per meglio descrivere la situazione odierna: chi si trova il volante tra le mani) non vuole essere disturbato, non vuole che gli si dica dove andare e che strada fare, non sopporta di dover discutere obbiettivi, tempi e metodi. Ritiene di essere intitolato a decidere lui, e ogni interferenza la vive come la lesione di un diritto. Vuole decidere quanto cambiare, come cambiare, con chi cambiare ed anche se cambiare. Ovviamente lo fa perché ritiene di poterlo fare. Insomma, è una lotta di potere, ma di potere vero, potere sostantivo e non verbo. Intendiamoci: è cosa naturale, naturalissima, sempre successa, dall’Atene di Socrate in poi, ma molto spesso la lotta è dissimulata, camuffata, nascosta sotto un velo, a volte molto pesante, di ipocrisia, di bon ton, di etichetta. Adesso no: è esplosa in tutta la sua evidenza. Le cause? Primo, il momento di emergenza, che impone urgenza, che richiede impegni molto gravosi e molto impegnativi per il futuro. Questo è un fatto. Secondo, l’attitudine personale di Matteo Renzi a non mandarla a dire, a non accettare quel bon ton che spesso serve solo a “sopire, troncare, …, troncare, sopire”. Non c’è dubbio, la personalità è molto forte, stare in un angolo non gli si addice; se ha delle idee, le enuncia, le motiva, e pretende di avere risposte. L’altro, è palesemente insofferente: sa di essere venuto fuori dal nulla, di avere goduto di circostanze forse irripetibili, si sente supportato da ambienti potenti, e non ci sta a farsi indicare la strada. O meglio, finisce poi per fare, a modo suo, parzialmente, alcune delle cose richieste e necessarie, ma rivendicandole come sua iniziativa, al massimo come concessione magnanima. Difficile il dialogo e la convergenza su un compromesso. Ma sarebbe riduttivo fermarsi allo scontro di personalità. C’è anche, evidente, chiarissimo, e infine perfettamente comprensibile, lo scontro tra chi sente l’emergenza e vuole utilizzarla per spingere l’urgenza del cambiamento e chi tende a galleggiare in un mare di compromessi, di aggiustamenti, di patteggiamenti, che salvaguardino equilibri, bilanciamenti di potere, compromessi tra soggetti influenti. La domanda è: ce lo possiamo permettere? È difficile da capire che, come Highlander, una linea esclude l’altra, che una sola resterà in piedi, e che quindi la scelta è inevitabile? Io credo che questo ci stia chiedendo la crisi: vogliamo una cura energica, impegnativa, forse dolorosa, ma radicale, o preferiamo un gradualismo meno traumatico, più consociativo, più accomodante, ma probabilmente insufficiente alla bisogna? La saggezza antica dice che il medico pietoso non aiuta il paziente. Se poi il medico non è nemmeno un gran luminare, …
|