Quando capita un disastro, un’evenienza nefasta ed imprevista, come un terremoto, un’inondazione, o una pandemia, in una società civile ci si aspetta che lo Stato intervenga e ponga riparo ai danni subiti. L’offesa arrecata da eventi fuori del nostro controllo (anche se non proprio del tutto) rende logico aspettarsi un ristoro, un sostegno, per usare i termini in voga adesso. È giusto, è naturale, è persino ovvio che sia così. Una società organizzata e civile deve dimostrarsi solidale e lo Stato deve provvedere all’assistenza dei suoi cittadini nel momento del bisogno. Per questo esiste il Welfare, la Sanità Pubblica, la Protezione Civile, il Volontariato. Ovviamente tutto questo ha un costo, richiede organizzazione, strutture, infrastrutture, competenza, studio, analisi, decisione, insomma è tutto fuorché gratis. E più alziamo il livello dei servizi forniti, più i costi sono alti, altissimi, astronomici e gli sforzi necessari molto ingenti. Ma da dove vengono le risorse necessarie? La risposta è ovvia: non possono che venire dalle tasse, che lo Stato impone, riscuote e che è tenuto ad utilizzare (anche) per questi fini. Quando ci si lamenta dello Stato, bisognerebbe sempre ricordarsene. Lo Stato non genera denaro (o meglio, può farlo, ma in un’ottica di equilibrio internazionale, nel nostro caso l’Eurozona); lo Stato vive perché è finanziato dai cittadini … e dal debito pubblico, debito che grava sia come costo della provvista (gli interessi passivi) che come dipendenza da chi i soldi ce li presta, sia esso il pensionato, il risparmiatore italiano (e fin qui almeno si resta nell’ambito nazionale) oppure il Fondo dei pescatori norvegesi o delle vedove scozzesi o investitori simili (il cosiddetto “mercato”). Il debito, anche se è ben utilizzato (il “debito buono”, come lo ha chiamato Draghi), sempre debito è ed il suo costo distoglie risorse da altri impieghi. Alla lunga andrebbe anche restituito, soprattutto se il suo ammontare deborda i limiti della sostenibilità internazionale (un Paese con troppi debiti è giustamente giudicato “a rischio” dai creditori, che quel rischio se lo fanno pagare). Lo Stato, d’altra parte, tra i suoi doveri ha anche quello di non farsi trovare impreparato dalle emergenze; questo vuol dire fare prevenzione, dotarsi di infrastrutture robuste, prepararsi a reagire e a dare un’assistenza sempre migliore (il costo della disorganizzazione, ovvero l’inefficienza, è spesso imponente). Se non lo fa, o lo fa male, butta via soldi dei cittadini, rendendo loro un cattivo servizio. I cittadini a loro volta hanno il dovere di pagare le tasse in ragione delle proprie disponibilità, e non della propria libera volontà (quella si chiama “beneficienza”, e non è obbligatoria). La Costituzione parla chiaro: il patto è quello. Servizi in cambio di soldi. E perché lo scambio sia equo occorre che tutti quelli che dispongono di redditi contribuiscano al funzionamento dello Stato. Ora parliamoci chiaro: vi pare che sia questa la situazione del nostro Paese? La risposta, negativa, è ovvia. I report dell’Agenzia delle Entrate ogni anno forniscono un quadro desolante dell’evasione. Tocca quindi essere chiari: si può incolpare lo Stato di ogni nefandezza e di ogni inefficienza, ma con altrettanta schiettezza si deve riconoscere che il pagamento delle tasse in Italia è ancora vissuto da molta parte dei (spesso solo potenziali) contribuenti come una ingiusta vessazione, come un appropriazione indebita del frutto del proprio sudato lavoro. E non vale come alibi il fatto che lo Stato spesso è inefficiente: per acquisire il diritto a lamentarsi, bisogna averglieli dati, i soldi, allo Stato. Si può discutere allo stremo sui quante e quali tasse, sul modo con cui lo Stato le utilizza, sulle ruberie, gli sprechi, le inefficienze, sull’evasione “di necessità”, sul lavoro che o è nero o non c’è per niente, sul sommerso, tutto. Ma il patto sociale prevede che per far parte della comunità ognuno PAGHI in proporzione alle proprie disponibilità REALI e non quelle che cortesemente gli va di denunciare, seppure lo fa. Non ci sono mezzi termini. Nessuno ha il diritto di auto decidere le tasse, per nessun motivo. Mai. Se nei prossimi due anni non riusciremo a produrre una riforma fiscale che vada in questa direzione con fermezza e decisione, oltre che avere ancora una volta tradito il principale fondamento del patto sociale, avremo anche perso l’ennesima occasione per diventare un Paese civile, ovvero un Paese in cui l’evasione fiscale sia come la rapina in banca, un fenomeno deviante, certamente ineliminabile del tutto, ma che non deve assurgere a fenomeno di massa. In realtà, a questo punto si dovrebbe aprire una parentesi sulla criminalità organizzata che, pur non essendo un fenomeno di massa è comunque talmente diffusa su tutto il territorio da inficiare perfino i parametri econometrici. Ma questo è un fenomeno con radici storiche così profonde da renderlo distinto (e purtroppo aggiuntivo …) rispetto ai più diffusi comportamenti di infedeltà fiscale. Ricapitolando, i ristori e sussidi oggi erogati, così come l’assistenza sanitaria e vaccinale, usano soldi di chi le tasse le paga e vanno anche a persone che invece le tasse non le pagano in misura corretta o addirittura non le pagano affatto. Quindi, si potrebbe chiedere a chi si lamenta dell’insufficienza dei sostegni: “Ma tu le tasse le hai pagate, TUTTE e SEMPRE?”. E vedere di nascosto l’effetto che fa.
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