Della gigantesca nave portacontainer che ha bloccato il canale di Suez per sei giorni, paralizzando il commercio mondiale, si è detto e scritto tutto. Anche della fragilità del nostro modello di vita, messo in crisi da un errore umano, un guasto tecnico, una fatalità, una folata di vento forte, vedremo quale sarà stata la causa determinante dell’incidente, si è detto molto. Resta da dire che, per quanto bizzarro possa essere considerato un modello economico che funziona letteralmente appeso ad un’unica fessura d’acqua, larga meno di 250 metri (il canale è stato raddoppiato di recente, ma non per tutta la sua lunghezza), attraverso la quale passa non solo merce, ma vita e lavoro per centinaia di milioni di persone, per quanto bizzarro questo sia, è tuttavia da considerarsi “normale”, dato che alternative praticabili non ce ne sono. Lo stesso vale per il Canale di Panama, così come per una serie di elementi strategici intorno ai quali tutto il mondo gira (le miniere di coltan, le terre rare, le testate nucleari, l’affollamento di satelliti nell’orbita bassa, …). Tutte cose che abbiamo reso indispensabili o comunque cruciali per l’equilibrio della nostra civiltà e che pendono come gigantesche spade di Damocle sulla testa del mondo intero. Abbiamo forzato il cammello attraverso la cruna dell’ago e ci stupiamo quando il cammello fatica a passare o magari si mette di traverso e si blocca, come la gigantesca nave nel Canale. C’è da dire che la nostra vita e la nostra civiltà sono inevitabilmente, e da sempre, appese a eventi che sfuggono al nostro controllo, come terremoti, tsunami, eruzioni vulcaniche, manifestazioni atmosferiche estreme (sulle quali qualche responsabilità diretta ultimamente ce l’abbiamo), per non parlare di minacce esterne come gli asteroidi (ce n’è uno di oltre 300 metri che ci sfiorerà tra meno di dieci anni …). Noi ne abbiamo aggiunte altre, artificiali, per alimentare un “benessere” mai visto prima, ma che facciamo ancora molta fatica a gestire in tutti i suoi aspetti e soprattutto a distribuire con una qualche equità. Credo sia del tutto inutile fantasticare su ipotetici “nuovi modelli di sviluppo”: arrivare fin qui ci è costato tanto in termini di morti, guerre, rivoluzioni, disastri sociali, miseria, … Adesso ci siamo e indietro non si torna. Bisogna però decidere come andare avanti ... Bisogna pensare a “consolidare” i notevoli risultati raggiunti in termini di qualità della vita ed estenderli il più possibile. Non è “solo” un fatto di equità, di giustizia sociale; è (per chi fosse del tutto impermeabile ai fattori morali) anche un puro fatto di sopravvivenza (come è evidente nel caso del riscaldamento globale). Bisogna allargare la cruna dell’ago; bisogna allargare i canali attraverso cui passa la nostra civiltà. È vero, la nostra civiltà è largamente artificiale, ma proprio per questo può essere progettata con criteri di maggiore "robustezza". Troppo alto è il rischio di perdere tutto; d’altronde le minacce sono evidenti: sono naturali, industriali, sociali, politiche, economiche, biologiche. Tutto ci può scoppiare tra le mani e non è saggio non prendere provvedimenti. La globalizzazione è un fenomeno irreversibile, inutile insistere a negarlo, e quindi bisogna trarne le opportune conseguenze politiche. È un processo in realtà già in atto e non potrà che avanzare sempre più speditamente, malgrado le resistenze di chi, legato a vecchi schemi particolaristici, non riesce a mettersi in sintonia con le grandi correnti evolutive della civiltà moderna. Ci vorrà qualche decennio, forse; chi ha la mia età non vedrà che l’inizio del processo, ma la strada a me pare segnata. Continenti e non piccole entità geografiche, federazioni di Stati e non singole nazioni, organismi sovranazionali di controllo, coordinamento globale delle emergenze, procedure operative condivise, tutto questo andrà sviluppato e realizzato. E le democrazie verranno sottoposte ad uno stress fortissimo: dovranno imparare ad essere più efficienti e più efficaci, altrimenti le autocrazie o le “democrature” prenderanno il sopravvento. Più semplici, più rapide, più flessibili, più “accattivanti” delle democrazie tradizionali, e purtroppo anche oggettivamente più diffuse, finiranno per diventare egemoni. Persino con il consenso popolare. Ecco la sfida che i democratici, soprattutto occidentali, debbono affrontare: se vogliono mantenere i principi fondamentali per i quali hanno lottato devono diventare tremendamente più efficaci e convincenti. La politica ha davanti a sé una sfida terribile. Lo scenario avverso è un mondo complesso, articolato, forse pieno di “benessere”, ma dominato da chi saprà offrire più sicurezza, da chi saprà infondere più serenità e tranquillità (non importa se finte ed illusorie) alle popolazioni. La democrazia è coscienza, è responsabilità, è impegno; bisogna mettersi in condizione di reggere la sfida di ogni pericolosa semplificazione autoritaria e totalitaria. Questa è una cruna che è difficile allargare: bisogna solo studiare, imparare, progettare e realizzare un mondo più aperto e più cosciente. “Vaste programme”, avrebbe detto qualcuno, ma vogliamo rinunciare?
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