Le dimissioni di Zingaretti, tattiche o effettive che siano, sono comunque indice del profondo disagio presente nel PD. Ne ho già parlato e non voglio annoiarvi ripetendomi. Quello su cui invece vale ancora la pena soffermarsi sono i possibili sbocchi della situazione che si è venuta a creare. Impossibile ormai andare avanti come nulla fosse. E il problema non riguarda solo il PD: sarebbe sciocco non considerare i continui travagli di questo partito nel quadro più ampio dei rapporti con le forze politiche in qualche modo “affini”. Anche se al momento tutto sembra spappolato e tutti sembrano andare contro tutti gli altri in un disordine cosmico primordiale, ci vuole poco a capire che tutto questo movimento dovrà prima o poi (meglio prima) trovare una sua sistemazione. A ottobre si vota per le amministrative, a febbraio ‘22 per il Presidente della Repubblica, al più tardi l’anno dopo ancora si vota per l’elezione del “nuovo” Parlamento, ora in edizione ridotta. Sono scadenze ineludibili in cui bisognerà presentarsi agli elettori con delle proposte perlomeno ragionevoli. Anche ammesso di riuscire a convincere Mattarella a fare un anno supplementare (e pare difficile …), poi gli appuntamenti arrivano lo stesso. Chi ha voglia di staccarsi per un attimo dalle furibonde polemiche tra le tante correnti del PD, da Calenda che azzanna Renzi, mentre tutte le altre millanta formazioni si preoccupano solo di differenziarsi le une dalle altre, dovrà rassegnarsi a pensare ad un possibile assetto futuro. Io la dico così: serve una Costituente del centrosinistra, alla quale partecipino tutti quelli in qualsiasi modo interessati alle opzioni riformiste, senza distinzioni preconcette. Non graditi solo i populisti di stampo peronista e i massimalisti “duri e puri”, per i quali il problema del governo è solo una seccatura da lasciare ad altri, per poterli accusare di essere schiavi delle multinazionali, di Big Pharma, dei poteri forti e di ogni altra nefandezza. Insomma, provare ad abbattere gli steccati delle attuali formazioni politiche e ragionare intorno ad obbiettivi strategici e ad un programma da realizzare tra il 2023 ed il 2028. Ovviamente non è affatto garantito che si possa giungere ad un risultato decente: il rischio di replicare lo psicodramma dell’Unione del 2006, con un inutile fanta-programma di 260 pagine, è altissimo. Ma esiste un’alternativa ad almeno provarci? Basta fermarsi un momento a guardare avanti, per capire che tutte le forze politiche sono chiamate a provarci. Lo farà anche la destra, certamente con meno difficoltà e traumi di noi. E allora? Esiste in Italia (ed anche in Europa) un’area liberal-socialista, ambientalista, federalista, insomma riformista, che ha voglia di mettersi alla prova? Esiste la possibilità di staccarsi dagli interessi di conventicole e corporazioni varie e pensare al bene comune, visto che, ci piaccia o no, dovremo competere prima con i nostri partner europei e poi, insieme, con giganti continentali come USA, Cina, Russia, Asia, e via dicendo? La risposta non può essere NO, perché in politica il vuoto non esiste e quindi quell’area prima o poi qualcuno la riempie, semmai facendo ricorso al più becero populismo. È così difficile da capire? Certo c’è il problema del leader: oggi nessuno pare in condizioni di assumere l’incarico, nessuno pare avere credibilità e carisma sufficienti. Ma per questo bisogna rinunciare? Non è che avviando un processo costituente (e ricostituente …) si offre ad un Mister X l’opportunità di emergere e convincere? Mi rendo conto che sto proponendo una specie di “talent” della politica, ma la situazione è quella cha abbiamo sotto gli occhi, inutile far finta di nulla. Un’ultima considerazione: questo del leader è un problema ormai strutturale. È evidente che l’area mal sopporta il concetto stesso di leader, sia egli volitivo, intraprendente e decisionista o sia un mite mediatore. È proprio la presenza di un punto di riferimento stabile ad essere invisa. Allora diciamolo chiaramente: non c’è speranza. La sinistra, o il centrosinistra, è “unfit to lead Italy”, come diceva l’Economist di Berlusconi nel 2001. Quindi, dopo Draghi, il diluvio. Amen.
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