Per una volta, dopo le votazioni sembrano essere tutti d’accordo, da destra a sinistra: tutti fortemente preoccupati per l’alto (sempre più alto) numero di persone che a votare non ci va proprio.Disaffezione per la democrazia, sfiducia nella politica, individualismo spinto, menefreghismo, disagio sociale, disistima per partiti e candidati, sono queste le motivazioni che vengono solitamente indicate. Motivazioni che peraltro ingolosiscono i partiti, che vedono la possibilità di pescare in quel bacino, sempre più appetibile, i consensi per vincere. Conclusione: bisogna lusingare, rassicurare, convincere il cittadino astenuto e spingerlo ad esprimere il voto per la propria parte … Ma siamo sicuri che abbia senso adottare strategie specifiche per pescare voti nel mare dell’astensionismo? Premetto che per una corretta analisi del fenomeno dell’astensione elettorale a mio parere servirebbero la competenza e gli strumenti di un Massimo Recalcati, l’insigne psicoanalista, da sempre molto attento all’interazione dell’individuo con la società. Infatti io credo che la scelta di non votare sia sempre e solo una scelta personale: non esiste il “partito dell’astensione”, come spesso viene giornalisticamente e semplicisticamente definito. Non esiste ovviamente alcun coordinamento, né un capo del partito, né un riferimento qualsiasi. Chi non vota lo decide da solo, al massimo confrontandosi con qualche familiare o qualche amico al bar. Qualche volta forse nemmeno sceglie coscientemente di non votare, semplicemente se ne frega … Insomma, ognuno si pone nei confronti del voto secondo il suo stato d’animo del momento, e non è affatto detto che siano sempre le stesse persone: gli atteggiamenti possono cambiare, una volta voto e l’altra no, alle amministrative sì e alle politiche no, semmai trovo un candidato simpatico, o qualcuno mi ha promesso un favore, oppure la vita mi va più o meno bene, … Poi ci sono quello cronici, certo, e anche qualche intellettuale “ideologo dell’astensione”, ma comunque numericamente questi sono irrilevanti. La massa degli astenuti conta milioni di persone e quindi va trattata come una popolazione di individui, stratificata socialmente, economicamente, culturalmente, psicologicamente: c’è destra e sinistra, centro e periferia, il ricco ed il povero, il giovane e il vecchio, il lavoratore e il disoccupato, il pacifico e, purtroppo, anche il violento, che rappresenta un problema di ordine pubblico. Sono comunque tanti e possono costituire un vulnus per la democrazia. Ma lo sono per davvero? Un candidato sindaco eletto con un’affluenza del 50% è meno sindaco di uno eletto con un’affluenza del 75%? Ha meno poteri, ha meno autorevolezza, o piuttosto è solo espressione di quelli che si sono presi la briga di andarlo a votare? Manco per niente. È Sindaco di tutti e per tutti deve governare, ovviamente. Intendiamoci, la scelta di non votare è di per sé rispettabile, ci mancherebbe altro!, ma è sempre irrilevante, in quanto oggettivamente non contribuisce al processo democratico di selezione della classe dirigente della comunità. È come dire: “Fate voi! A me non interessa, neanche mi sforzo di cercare il meno peggio!”. L’astensionismo non è di destra, di centro o di sinistra. Semplicemente non è una scelta rilevante, perché sceglie, vuole non essere rilevante; certo, “potrebbe” esprimersi per una parte, ma è solo una pura ipotesi. E se nessuno votasse? Ovviamente sarebbe la fine della democrazia, ma anche la fine del patto sociale che permette di far funzionare una società. Sarebbe l’equivalente della bomba atomica, un’arma che non fa vincere la guerra ma distrugge tutto e tutti, vincitori e vinti. L’arma finale, ma anche il deterrente definitivo. Allora, non facciamola tragica! Chi non vota non partecipa, e per convincerlo a partecipare non c’è altro strumento che fargli capire, sperando che voglia capire, che invece gli converrebbe partecipare, che la società funziona meglio se tutti concorrono, se nessuno si estrania, anche perché, gli piaccia o meno, ne è comunque coinvolto. Non è che chi non vota non va in ospedale, non manda i figli a scuola, non chiama i Vigili o la Polizia, non gira per le strade, non ha bisogno della Magistratura, ... La mia preoccupazione, motivo per il quale sto affrontando il problema, è che la caccia al voto degli astenuti possa spingere i partiti verso posizioni sempre più schematiche, semplicistiche, populiste, “di pancia”, nella speranza di sollecitare l’astenuto a non astenersi più. Io credo invece che l’unico modo per ridurre l’astensione sia praticare la buona politica, ovvero quella che affronta e risolve i problemi, che dimostra di essere utile ed al servizio della società, presente sul territorio, quella che rende migliore la vita dei cittadini. Per ridurre l’astensione l’asticella va alzata, e di parecchio, mai abbassata per intercettare solo il disagio e la sfiducia. È un processo più lento, più complicato, più impegnativo, ma tutti gli altri approcci sono scorciatoie, inutili e spesso molto dannose, come abbiamo potuto toccare con mano sabato scorso. E se qualcuno continua a non voler mettere una croce sulla scheda, ebbene dovremo farcene una ragione! Qualcun altro lo farà per lui, mentre lui continuerà a lamentarsi, pur continuando ad usare i servizi che la società gli mette a disposizione. Un po’ come l’evasore fiscale … Negli ultimi decenni abbiamo avuto la geometrica dimostrazione di come il populismo sia stato in grado di fare danni al nostro Paese: ma tanti di quei danni, che ora anche i populisti delusi si astengono in massa e l’astensione cresce ancora. Bel risultato! Non esiste una politica contro l’astensione, esiste una politica buona e una cattiva, una politica che risolve e una che complica, una che migliora il mondo e una che lo peggiora. Chi non è in grado, o non vuole, distinguere, troverà sempre un buon motivo per astenersi. Mentre le persone di buona volontà continueranno a sbattersi per mandare avanti la baracca.
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