Sta passando un altro treno …Non è il primo, non sarà l’ultimo (speriamo), ma anche su questo possiamo salire o non salire. Oppure far finta di salire e scendere alla prima fermata. Oppure restare a bordo ma accarezzare platealmente la maniglia del freno di emergenza, pronti a tirarla al primo scossone. Insomma, uno un treno lo prende se vuole (deve) andare da qualche parte: ma bisogna sapere dove si sta andando e volerci andare. Non si sale su un treno per fare un giretto: si va da un punto all’altro. Se possibile volontariamente, altrimenti diventa una tradotta, cosa che però rimanda a pensieri molto bui. Tutta questa premessa ferroviaria per dire che una società può scegliere di restare ferma e farsi passare il mondo addosso (è una scelta rispettabile, seppur fortemente a rischio di autolesionismo e autoisolamento, e si chiama “conservatorismo”), oppure decidere di mettersi in marcia e cercare di andare verso il futuro, magari provando anche a pilotare, ad indirizzare e controllare l’itinerario. A me pare evidente che siamo in uno di quei momenti lì: ci sono le condizioni per mettersi in viaggio, forse anche in prima classe, col biglietto pagato dalla cooperativa europea, ma bisogna decidere di lasciare il paesello e dirigersi verso un altro posto, dove si spera si possa vivere meglio. Mettersi in viaggio è una cosa che ha distinto l’homo sapiens fin dalle sue origini e, se siamo usciti dalle caverne, è perché la paura dell’ignoto non è riuscita a bloccarci dentro, è perché abbiamo sperato di stare meglio, e in fin dei conti, tra mille e mille difficoltà, ci siamo pure riusciti. Abbiamo inventato complessi sistemi per organizzarci, per evitare che fosse solo la forza bruta di qualcuno a decidere per tutti; ci abbiamo messo millenni e qualche passo avanti lo abbiamo fatto. La democrazia rappresentativa, unita al patto sociale, è quella roba che dovrebbe consentirci di convivere senza scannarci cercando, se possibile, di progredire. Resta il fatto che chi ritiene di stare bene dov’è (per mille motivi, forse anche rispettabili) vede con terrore l’ipotesi di salire sul treno e viaggiare verso un futuro dove i suoi privilegi e le sue prerogative, spesso a fatica conquistati, potrebbero non essere più garantiti. Guardiamoci allo specchio: chi di noi, in vista di un viaggio, non ha all’ultimo momento tentennato, magari solo un po’? Per qualcuno è un pensiero fugace, per altri è paralizzante, per altri diventa questione di vita o di morte. Ecco, noi possiamo chiederci, come fanno in ogni talkshow che si rispetti, se Draghi, dopo l’avventurosa rielezione di Mattarella, è più forte o più debole, se i partiti lo aiuteranno o meno, se il Parlamento collaborerà oppure alzerà barricate, ma dobbiamo anche chiederci se questo Paese ha voglia di prenderlo il treno, oppure no. Può essere fuorviante parlare di Paese come di un soggetto collettivo, perché le realtà sono molto variegate, ma non possiamo fingere di non capire. Che il catasto sia vecchio di decenni e vada riformato per adeguarlo al mercato, che le concessioni a vita dei balneari siano indifendibili, che la magistratura abbia perso credibilità e vada riformata nel profondo per rimetterla in sintonia con la società, che sulle pensioni non si possa più largheggiare e che un sistema fiscale vecchio di decenni vada rifatto da capo, tutte queste, e altre ancora, sono evidenze lampanti per tutti. Mattarella riceve 55 applausi che testimoniano sia l’urgenza dei temi che l’ipocrisia di molti dei plaudenti. Qui infatti, prima del merito, c’è il blocco preventivo, applaudire ma non toccare nulla, lasciare tutto com’è. Non c’è condivisione sull’urgenza di cambiare, prima che sul come cambiare. Non ci si sale proprio, sul treno, altroché; e se ci si viene trascinati a forza, si puntano i piedi e si impedisce di chiudere le porte, oppure ci si fionda sul freno d’emergenza. E non si va avanti. Ha ragione Draghi a drammatizzare, come ha fatto giorni fa. Le resistenze dei conservatori, corporativi e consociativi ad ogni costo, devono essere portate alla luce e deve essere chiaro chi tira e chi frena. Non c’è dubbio che, se tutte le forze politiche condividessero l’urgenza del cambiamento, le soluzioni si potrebbero pure trovare, magari non ottimali, ma molto migliorative sì. Invece interessi particolari, uniti all’egotico protagonismo di certi supposti leader, fanno sì che la discussione diventi ostruzionismo e l’ostruzionismo guerriglia aperta. Se guardiamo agli ultimi trent’anni, dopo Tangentopoli (sulla cui genesi e sviluppo pure non si è ancora riusciti a dire parole definitive), abbiamo visto il treno di Prodi deragliare dopo pochi chilometri (e meno male che almeno siamo entrati nell’euro!), quello di Veltroni nemmeno partire, quello di Renzi prendere un buon abbrivio, ma schiantarsi sul muro del referendum, dopo efferati e trasversali sabotaggi. Poi abbiamo provato altri improvvisati mezzi di locomozione (troppo chiamarli treni …) che andavano in direzione contraria, ma erano guidati da persone così incapaci da riuscire a fare solo pochi metri, provocando comunque seri danni all’infrastruttura. Adesso ne è pronto un altro, sembra comodo e veloce, persino accogliente. Alla guida c’è una coppia che rappresenta il meglio che questo Paese può produrre al momento, sembrerebbe il momento giusto. Eppure, eppure, … il treno non parte. “Difficoltà di carrozzamento”, dicono i ferrovieri, il convoglio singhiozza, strattona, non lascia la banchina. Prima o poi parte lo stesso e noi restiamo a guardare … Da fuori assistono attoniti, increduli (e dire che intorno non mancano altri motivi di preoccupazione …) e aspettano che noi si trovi il modo di dare manetta e correre. Temo che, se un manipolo di coraggiosi non riuscirà a installarsi saldamente in cabina a dare manforte ai conduttori, anche questo convoglio rischia di andare perso, o di girare in tondo come il treno di Burt Lancaster, nel bel film di Frankenheimer. Lì si cercava, meritoriamente e con tanto coraggio, di evitare il furto di immense opere d’arte, qui salviamo solo le misere opere di un sistema guasto, che non vuole saperne di cambiare.
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