Caro Enrico,so bene che scrivere a chi non c’è più può sembrare un logoro esercizio retorico, ma nel tuo caso è improprio dire che “non ci sei più”. In occasione del centenario della tua nascita, appena trascorso. abbiamo potuto constatare quanto la tua sia una presenza ancora molto viva, che travalica i tuoi tanti estimatori politici e si allarga in un vero e proprio “sentimento popolare”, che forse davvero “nasce da meccaniche divine”. Certo, ci sono ventenni che balbettano (nel bel documentario di Walter Veltroni) indecisi se eri un mafioso o un magistrato, un politico (destra, sinistra, fa niente…) o un giornalista, ma è fuori dubbio che la tua figura abbia segnato e continui a segnare un mondo, un’epoca, una quindicina d’anni tra i più densi della nostra Repubblica. Anni in cui la nostra travagliata vicenda politica ha cercato di prendere una piega più congruente con la storia degli Stati Occidentali, democrazie aperte caratterizzate dall’alternanza dei partiti al potere, scatenando reazioni furiose, violente, che abbiamo visto esplodere nel terrorismo, fosse esso nero, rosso o di Stato. È stata spesso riproposta la risposta che tu detti a Minoli, un anno prima di lasciarci: “sono rimasto fedele agli ideali della mia gioventù”. Ecco, appunto: parliamo di quello, perché è bello rimanere fedeli a qualcosa per tutta una vita, mantenere saldo un ancoraggio, un punto di riferimento. Ma siamo sicuri che sia sempre la cosa migliore? Per un politico, il concetto di “migliore” deve valere non solo per lui stesso, ma per la comunità alla quale appartiene. E tu, Enrico, non appartenevi più solo alla comunità della sinistra degli anni Cinquanta e Sessanta, che nel 1969 ti aveva portato alla guida del PCI (Vicesegretario, ma in realtà già Segretario Generale). Alla metà degli anni Settanta tu, con la tua presenza, il tuo carisma, la tua autorevolezza, eri diventato un leader per tutti quelli che avevano voglia di cambiare, che credevano si potesse chiudere la stagione del monopartito egemone (la DC) attorno al quale girava la politica italiana dal 1948. “Era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita” (Qualcuno era comunista - Gaber/Luporini). Si era creata una comunità molto più ampia, molto più estesa, molto più laica, certamente riformista, che arrivò al 33%, poco, molto poco di meno della DC. E molto aldilà del tradizionale bacino operaio e sindacale del PCI. Erano borghesi, classe media, commercianti, professionisti, intellettuali anche non organici, che avevano aperto una linea di credito verso la tua persona. E non andavano delusi. D’altronde, il processo non era stato né corto né casuale: l’avevi costruito con pazienza e tanta sagacia. Eri andato alla Conferenza dei Partiti Comunisti già nel 1969 a dire in faccia ai sovietici che qui da noi si faceva come volevamo noi. Avevi aderito alla campagna per il divorzio nel 1972 (e in tanti nel Partito storcevano il muso al nome di Marco Pannella). Avevi subito l’attentato in Bulgaria (1973), avevi detto che ti sentivi più sicuro con la NATO che con il Patto di Varsavia (1976). Avevi ribadito ai sovietici, a cent’anni dalla loro Rivoluzione (1977), che la democrazia e la libertà sono beni assoluti, che l’Occidente era e restava Occidente. Avevi dichiarato la superiorità del modello di economia di mercato, fino a sancire l’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre (1981). Avevi intrecciato da tempo i rapporti con Aldo Moro, la testa pensante più raffinata della DC, avevi scritto tre articoli su Rinascita (1973) dopo il golpe cileno per spiegare ai compagni che anche qui correvamo quei rischi tremendi e che quindi occorreva battere altre strade. Avevi detto tutto quello che dovevi dire e la gente aveva capito; tutti avevano capito, anche quelli che, terrorizzati dalle conseguenze di un possibile cambiamento, misero in atto le contromisure più spietate per fermare il progetto, visionario ma realistico, del “compromesso storico”. Un terzo degli elettori aveva visto qualcosa di nuovo che prendeva forma e aveva sperato … le vittorie del 1975 e del 1976 portarono il PCI ed il suo leader sulla bocca di tutti e sui giornali di tutto il mondo. Non erano tutti comunisti, men che meno ipotizzavano una società molto diversa da quella che conoscevano: però volevano un cambiamento, chiedevano forze fresche, idee nuove. Un’altra parte della società italiana invece si preoccupò moltissimo: conservatori di destra e di sinistra si sentirono minacciati e misero in atto tutto quello che tragicamente conosciamo, fino all’uccisione di Aldo Moro nel 1978, che pose fine all’”anomala” transizione italiana. Però il percorso verso la possibile normalizzazione della situazione politica poteva non arrestarsi. I problemi erano stati posti tutti, le premesse dichiarate con lucidità: bisognava fare l’ultimo passo verso la modernità. Fatto il corso da paracadutista, acquistata l’attrezzatura, noleggiato l’aereo, giunti in quota, aperto il portello, bisognava fare il passo nel vuoto e lanciarsi. Il consenso non mancava, anche se le reazioni sarebbero state ancora più violente. Ed fu sbagliato illudersi che quel consenso fosse indirizzato alla realizzazione di un fantomatico “eurocomunismo”, che non esisteva e non poteva esistere. Serviva un cambiamento visibile nella politica italiana, e non poteva che essere quello di togliere il nome “comunista” e la “falce e martello”, simboli di un mondo ormai in disfacimento. Serviva un Partito Democratico. E invece no. Legasti il tuo nome alle battaglie di retroguardia della CGIL alla FIAT nel 1980, alla indifendibile scala mobile sostenendo un referendum suicida, ad un’alternativa democratica che non aveva alcuna possibilità politica concreta. Abbiamo dovuto aspettare quasi dieci anni per la svolta di Occhetto e oltre quindici per vedere nascere il PD di Veltroni (passando attraverso l’ennesimo suicidio dell’Ulivo di Romano Prodi). Venticinque anni, una generazione intera, durante la quale è esploso il giustizialismo di Mani Pulite, il leghismo, il populismo di Berlusconi prima, di Beppe Grillo poi. Tentativi di rialzare la testa coi governi Prodi e poi Renzi, subito schiacciati da controreazioni interne ed esterne sempre più volgari e di basso profilo, fino a Salvini in mutande al Papeete e Conte con la pochette (per Zingaretti "punto di riferimento del progressismo …") al banchetto davanti a Montecitorio. Ora abbiamo di nuovo in sella gli uomini migliori del Paese (Mattarella e Draghi), ma la vita politica è travagliata assai. Le resistenze sono sempre più forti, il vento spira contro. Arduo prevedere gli sviluppi di tanta confusione, dove andremo ad approdare di qui ad un anno. Quando si intraprende un cambiamento, bisogna andare fino in fondo. Il sentimento di un Paese è labile, cambia con rapidità. Cogli l’attimo. Riposa in pace, Enrico, hai fatto tantissimo ma non era abbastanza. Qualche volta “gli ideali della gioventù” diventano un freno, un limite che impedisce di vedere l’orizzonte fino in fondo. Ci hai fatto capire che cambiare gioco era possibile; in troppi, spaventati, ti hanno trattenuto, tirato indietro, in pochi ti hanno davvero spinto avanti. Forse i tempi non erano maturi, ma i tempi sono sempre quelli che ci costruiamo noi … Amavi il mare e sapevi navigare. Cristoforo Colombo arrivò in quelle che credeva essere le Indie anche se non vedeva la sua meta; ci ha creduto fino in fondo, la molla giusta ce l’aveva dentro. Ha cambiato il mondo.
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