Semplificare ad ogni costo le cose complesse, magari banalizzandole, è specialità di ogni populista che si rispetti (quindi non mia), ma a volte anche complicare i problemi, col solo scopo di renderne difficilissima la soluzione, è un’operazione da masochisti.A nessuno può sfuggire l’estrema delicatezza delle elezioni che si svolgeranno in Italia al massimo entro un anno da oggi. Dico al massimo, perché nella masochistica volontà di complicarsi la vita, qualcuno potrebbe ambire a chiudere la legislatura in anticipo e votare a ottobre, fregandosene della legge finanziaria, della situazione geopolitica, dei progetti del PNRR e di altre cosucce del genere, sperando di lucrare qualche decimo di mezzo punto sul suo più diretto concorrente che, badate bene!, non è quello dell’altro campo (destra o sinistra che sia), ma il più vicino potenziale concorrente. È un triste esercizio di alchimia elettorale, che ha già fornito innumerevoli dimostrazioni di alta letalità. Io credo che invece in politica sia indispensabile la capacità di individuare gli obbiettivi possibili e attrezzarsi per raggiungerli, utilizzando tutte le relazioni che possono concorrere al risultato finale. Non si può partire da schemi preconcetti e cercare di adattarci una realtà riluttante. È questo il modo più sicuro per andare a sbattere contro un solido muro, perché la realtà è più forte e non si fa costringere solo perché lo pretende la supponenza di un qualche capopopolo. Dove voglio andare a parare? Semplice (appunto!): l’Italia, checché ne dicano Travaglio e i suoi tristi sodali, ai quali è stato per sempre sottratto il giocattolo ormai inservibile dei cinquestelle e della loro inutile creatura Giuseppe Conte, ha finalmente trovato alcune personalità di sicuro, sicurissimo, peso e valore sulla scena internazionale. Ne abbiamo avuto più d’una nella storia anche recente, ma finora ci siamo sempre industriati a bruciarle il prima possibile, mettendole quanto prima in condizione di non nuocere agli intoccabili interessi del “Paese-che-non-vuole-cambiare”, ovvero i Gattopardi, di destra e di sinistra, che controllano alcune centrali inattaccabili del Potere, dalla magistratura ai media, dalle corporazioni sindacali alla grande burocrazia statale. I nomi li conoscete, ormai è Storia. Malgrado loro però, di tanto in tanto si è riusciti a produrre un abbozzo di classe dirigente che ha cercato pragmaticamente di guardare l’interesse nazionale e non quello particolare di questo o di quello. Dopo mille traversie, in una avventurosa legislatura, che dal 2018 ha prodotto i peggiori governi della Repubblica, con alleanze fantasiose e nocive e con un’impresentabile classe dirigente (ogni allusione e Lega e cinquestelle non è affatto casuale), la ruota, opportunamente azionata da alcuni assennati giocatori, si è fermata su Sergio Mattarella e su Mario Draghi; anche che siano al loro posto grazie alle felici intuizioni del Mostro della Politica Italiana non è affatto casuale, ma lasciamo stare … Si tratta di due persone di inarrivabile qualità, conosciute e stimate in tutto l’orbe terraqueo, sia dagli amici ma anche dai nemici, che bramerebbero di vederle presto in pensione. Peccato per loro, Mattarella ormai è ingaggiato fino al 2029; seppur avventurosamente, abbiamo evitato Belloni, Casellati, Frattini, Pera ed altri possibili ed improbabili campioni scodellati dal peggior populismo nostrano. Ma Mattarella non basta. Serve anche Mario Draghi, il cui prestigio dovrebbe essere fuori di ogni possibile discussione (eccettuato il caso umano Travaglio con la sua corte). Uno così, possiamo permetterci di mandarlo in pensione tra un anno? Regalarlo alla Goldman Sachs, a qualche altra istituzione finanziaria, oppure destinarlo alle conferenze o alle passeggiate nei boschi dell’Umbria? Sarebbe masochismo puro, e non saprei come definirlo altrimenti. Eppure, per la politica italiana prima Draghi si toglie dalle scatole e meglio è: ingombrante, carismatico, duro da condizionare, esperto, conosciuto, pregi che ne fanno un vero rompiballe universale. Perché tenersi in squadra, anzi in panchina a dirigere ed allenare, uno così ostico? Infatti, ad oggi le probabilità che Draghi venga pensionato tra un anno sono altissime. Nessuno o quasi ha il coraggio di sostenere la sua permanenza ai vertici. “Ma lui non vuole, è stufo, non si candiderà mai per una parte sola, è un tecnico, va bene solo per governi di emergenza, …” viene opposto, insieme ad altre apparenti inoppugnabili verità. Ma è vero? Non dovremmo invece prendere atto della realtà (ovvero l’assoluta preminenza di una figura così) ed agire con l’obbiettivo di tenercela stretta per qualche anno ancora? L’uomo è del ’47, l’età non è un limite insormontabile; il PNRR finisce nel 2026, avrebbe 79 anni e i boschi dell’Umbria possono aspettare (sempre che non lo si voglia spostare al Quirinale, da dove Mattarella potrebbe voler uscire con un po’ di anticipo sulla scadenza del gennaio ’29). “Ma Draghi non l’ha eletto nessuno” dice una voce dal fondo. Vero anche questo, ma chi impedirebbe ad un gruppo di volenterosi partiti, partitini, partitoni, oggi in piena crisi di identità ed in marasma da assenza di soluzioni, di coalizzarsi per offrirgli di guidare il Paese almeno fino al 2026? Non lo appoggerebbero di certo quelli che già oggi apertamente lo combattono, mal tollerando il suo standing: Salvini, Meloni, Conte, Travaglio, qualche pezzo di sinistra saccente ed inconcludente, gente molto rumorosa, invadente sui media, ma del tutto priva di una proposta politica per il Paese e certamente non in sintonia con la sua parte più attiva e produttiva. Populisti, la cui stagione è ormai passata e che non dovremmo mettere di nuovo in condizione di nuocere. In USA Trump è al momento fuori gioco (e speriamo lo resti), in Francia Macron ha davanti cinque anni pieni e con pochi vincoli, visto che non potrà essere rieletto nel 2027, in Germania la coalizione di Scholz ha isolato estremisti e nostalgici, l’Unione Europea è gestita efficacemente (pur con tutti i limiti che ben conosciamo) da una coalizione di democratici, socialisti e liberali, che hanno anche loro emarginato i populisti. Ma perché solo qui da noi dobbiamo rischiare di far vincere il peggior populismo sulla piazza occidentale per l’assurda pretesa di fare a meno dell’uomo migliore che abbiamo, riconosciuto come tale anche all’estero (sarà un caso che due giorni dopo la visita di Draghi a Biden ci sia staro il primo abboccamento diretto tra gli Usa e Putin?)? Ma non è masochismo puro? Possibile che Letta debba condizionare la politica del suo PD alle bizze di un ectoplasma come Conte per la paura di scontentare qualche insulso cespuglietto rumoroso nel suo Partito e nella vicina sedicente sinistra? Possibile che Renzi, Calenda, Bonino, socialisti, quel che resta dei Verdi, non si rendano conto che la via d’uscita è una e una sola? Possibile che i riformisti di quella che fu Forza Italia non riescano ad affrancarsi dalla gerontocrazia berlusconiana e non si assumano la responsabilità di navigare con i loro simili, piuttosto che borbottare contro Salvini e Meloni? Persino alcuni leghisti più seri, ma non sono ancora stufi della ormai evidente confusione mentale del loro ex-Capitano? Tutti questi hanno proposte politiche largamente assimilabili, facilmente riconducibili ad un programma comune, che Draghi accetterebbe e gestirebbe al meglio, se solo gli fosse presentato in modo credibile, organizzato e non litigioso. Mi illudo? La faccio facile? Io ripropongo cocciutamente il solito Rasoio di Occam, che ha già dato buoni frutti negli ultimi tempi. Dritto per dritto, la soluzione migliore è la più semplice, quella diretta, quella che la maggioranza degli italiani apprezzerebbe, senza troppe cervellotiche elucubrazioni. Ammesso che a qualcuno gliene freghi qualcosa degli italiani che lavorano, producono, e mandano avanti la baracca. Con infinita pazienza.
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