Si fa un gran parlare di riforme, riformismo e riformisti. Diamo tutti per scontato il significato di queste parole, ma forse non è proprio così scontato … Queste elezioni saranno tutte giocate sul grado di riformismo dei protagonisti, ma il concetto rischia di risultarne travisato, confuso, perfino mistificato. Tutti infatti possono definirsi riformisti, tutti possono rivendicare la necessità e la volontà di riformare qualcosa, di varare riforme che modifichino anche in profondità l’assetto politico e sociale del Paese. È riforma il presidenzialismo, come è stato riforma il reddito di cittadinanza, oppure lo sarebbe una fantomatica “flat tax”, o una Quota cento e rotti per le pensioni. Ma lo furono anche le unioni civili, l’assetto delle banche popolari, il 730 precompilato, il canone TV in bolletta, la trasformazione del Senato (bocciata dal referendum), … Tutte riforme, più o meno incidenti, più o meno efficaci, più o meno accettabili e opportune. E allora tutti ugualmente riformisti i promotori? Il riformismo è una notte in cui tutti i gatti sono neri? Certo che no. Quando si parla di riformismo si usa un concetto con un valore storico molto preciso, è bene ricordarlo. Si tratta di quella tendenza politica che persegue l’evoluzione della società attraverso metodi non rivoluzionari, pacifici, condivisi, democratici. Non imposti con la forza né tali da sovvertire l’ordine costituito. Uno sviluppo graduale dei rapporti sociali, delle regole, delle strutture istituzionali. Il riformismo è un metodo, prima che un contenuto: la società si cambia con il consenso di tutti, o almeno di una maggioranza significativa di cittadini. Il metodo è quello democratico: elezioni a suffragio universale, proposte di programmi elettorali, rappresentanti eletti che li interpretano e li realizzano nelle istituzioni, secondo le regole costituzionali. Chiarito questo, resta comunque aperta la questione dei contenuti: quali riforme? in che direzione? con quali obbiettivi? Gli avversari del riformismo sono solo i rivoluzionari (massimalisti) o anche i conservatori, ammesso che esistano ancora? In un mondo a così alto tasso di evoluzione questi ultimi sono oggettivamente un bel po’ fuori moda, rischiano di essere ed apparire nostalgici, passatisti, addirittura retrogradi. A nessuno, che non sia un bel po’ snob, fa piacere essere associato alla difesa della tradizione tout court. Cionondimeno gli snob tradizionalisti esistono, e qualcuno di loro vota pure. Per il resto, bisogna distinguere tra un riformismo di sinistra e uno di destra, a seconda dell’orientamento della forza politica che lo propone, con contenuti profondamente diversi… La Storia del Novecento ci ricorda che riformisti erano Turati, Matteotti, Salvemini, Rosselli, e non Gramsci, Togliatti, Bordiga e Serrati, né tanto meno, sul fronte opposto, Benito Mussolini, fascista rivoluzionario, ma conservatore dei sacri (per lui) valori tradizionali (Dio, Patria, Famiglia). Insomma, storicamente i riformisti furono quelli da cui si separarono i massimalisti comunisti nel gennaio 1921, convinti che il futuro fosse “fare come in Unione Sovietica”. Col passare degli anni ovviamente il concetto si smorzò, e di molto, ma la matrice di provenienza è quella. Oggi i riformisti moderni raggruppano le eredità liberali, socialiste, socialdemocratiche, repubblicane, azioniste, popolari, e propongono una società dove uguaglianza, libertà e solidarietà siano parimenti declinate, nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini, ma anche nel rispetto dei loro doveri sociali. Una società dove lo Stato è garante di tutti, regola i rapporti sociali ed economici, fornisce servizi, anche in competizione con l’iniziativa privata, assiste chi ha bisogno e assicura l’uguaglianza dei punti di partenza. Difficile considerare riformista invece chi si rifà esplicitamente alla tradizione socialista, egualitaria, assistenziale, dove lo Stato è un’entità pervasiva, predominante rispetto al cittadino. Quanto alle ipotetiche riforme della destra, nulla vieta di chiamarle così, ma il rispetto della Storia dovrebbe portare a dire che smontare l’Unione Europea, imporre la sovranità nazionale in contrapposizione a quella comunitaria, predicare il neutralismo rispetto alla NATO e a Putin, semmai tornare alle monete nazionali, alzare barriere verso i migranti e verso la globalizzazione, ebbene tutto questo sarebbe più corretto chiamarlo con il suo vero nome, ovvero “restaurazione”. Becera “restaurazione”. Ricordiamocelo il 25 settembre, quando tutto questo ci verrà proposto sulla scheda elettorale: il massimalismo statalista, incistato nei partiti di sinistra e nella parte ormai dominante del PD, il riformismo liberale e democratico del cosiddetto Terzo Polo, unica proposta coerente e omogenea presente sulla scheda, il “riformismo” restauratore della destra, rappresentato dal finto nuovismo di Giorgia Meloni, donna, madre, cristiana, scortata dalle due cariatidi della più becera conservazione come il plurimadonnato Salvini ed il cyborg Berlusconi con le sue patetiche badanti. Cosa pensate che serva di più ad un Paese come l’Italia, sempre in lotta per cambiare, ma sempre frenato da mille vincoli e connivenze? Non so voi, ma io di dubbi proprio non ne ho.
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