È circolato in questi giorni un sondaggio, effettuato tra iscritti e militanti del PD, su un tema cruciale: si deve “governare per il cambiamento anche rinunciando ad alcuni punti identitari” o di deve “essere fedeli alla propria identità anche rinunciando a governare”? Domanda esistenziale, sulla quale il Partito, guarda un po’, si è diviso in due metà, come una mela. Come conciliare due posizioni così diverse in un’unica proposta politica? Chiunque sarà il nuovo Segretario/a, quale anima rappresenterà? O come le terrà insieme? Fintantoché si sta all’opposizione l’argomento può essere pure sottaciuto, ma non appena questo Governo dovesse scricchiolare e si dovesse quindi agire per favorire un ricambio politico, cosa farà il PD con la nuova dirigenza? Resterà rigido o parteciperà al gioco democratico cercando alleanze e compromessi che lo riportino nell’area di Governo? Quando nacque nel 2007, il PD aveva chiaro che un Partito moderno esiste per governare e che, se perde le elezioni e non governa, il problema va risolto nel più breve tempo possibile, cercando di ridiventare maggioranza (in due parole schematiche: la famosa “vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria). Poi, gli eventi che si sono susseguiti, dalla crisi di Berlusconi del 2011 (governo Monti) in avanti, hanno fatto sì che in effetti il PD sia rimasto quasi sempre nell’area di Governo, con la sola parentesi del Conte 1 grillo-leghista, durata peraltro poco più di un anno e finita al Papeete nel 2019, e poi con la spallata del solito Renzi. Periodo senza dubbio rocambolesco nel quale, da una parte tutte le correnti si sono esercitate nella gestione del potere, dall’altra è maturata una nostalgia per i “bei” tempi in cui si faceva allegramente opposizione, tutti insieme, tutti uniti, tutti affratellati nella lotta, vicini al popolo, tra costine e salamelle nelle sere ai Festival dell’Unità. Squassante contraddizione, che ancora oggi rimane scolpita nelle risposte alle domande dei sondaggi. Non si tratta di lana caprina: governare piace a tutti, ma è anche tremendamente faticoso, scomodo, pesante per le responsabilità che DEVI prenderti. Accontenti qualcuno e fai infuriare altri, quando fai una nomina, crei cento scontenti e un ingrato, daresti anche tutto a tutti, ma la coperta è sempre corta e conciliare le esigenze di bilancio con la tendenza ad andare in ogni modo incontro alle richieste popolari è spesso lavoro improbo, ... Tanto più ora che le esigenze popolari diventano spesso esigenze populiste, con demagoghi di ogni risma che soffiano su un fuoco che già di suo arde, alimentato da crisi economiche, globalizzazione, pandemia, ora anche inflazione, caro energia, ... Ecco che le incertezze diventano evidenti, la credibilità scema, la sintonia con l’elettorato viene meno, e si perdono milioni e milioni di voti. Oggi il PD tocca forse il punto più basso nei consensi e la spaccatura a metà su temi di fondo è impietosa, in pieno Congresso. Mentre i candidati parlano d’altro e non sembrano avere la “cazzimma” necessaria per riprendere in mano il bandolo della matassa e indicare la strada in modo chiaro. Diceva Tony Blair, oggi autentico babau (come Renzi) per il dibattito congressuale, che lui rispettava tutte le sacre tradizioni laburiste, tranne quella di perdere sistematicamente le elezioni. Infatti vinse ripetutamente e governò oltre dieci anni, soccombendo solo alla sciagurata gestione della guerra di Bush jr. (in realtà di Dick Cheney e della Halliburton) contro l’Iraq di Saddam. Un Partito che vuol governare gioca sempre in attacco, cerca strategie, alleanze, anche compromessi, per attuare i cambiamenti che sono nel suo programma. Ne attuerà quanti potrà, forse pochi, ma giudicherà che è sempre meglio che lasciare fare agli altri, conservatori o destra che dir si voglia. Stare all’opposizione è senz’altro più confortevole: niente responsabilità, facilità a trovare sintonia con gli ultimi e i perdenti, fedeltà ad ideali che non abbisognano di essere costretti nelle mediazioni, senso di appartenenza ad una comunità che fa fronte contro il nemico comune. Scalda il cuore, appassiona, fa gruppo, ci si consola, ci si sostiene, … mentre “gli altri”, la DC, il pentapartito, Berlusconi, o adesso Meloni, governano e “si divertono” con i conti e con la cosa pubblica. Per decenni il PCI ha dovuto (e voluto) rimanere segregato all’opposizione: poi Moro e Berlinguer diedero una scossa forte, che però risultò mortale per il primo e stordente per il secondo, che infatti si richiuse in fretta nella ridotta nell’opposizione per altri dieci anni. Storia vecchia ma, per chi c’era, è tutta ancora lì, presente, e la spaccatura evidenziata dal sondaggio è spietata nella sua crudezza. Si capisce allora come una storica (non vecchia, essendo più giovane di me) militante come Livia Turco, figura iconica della Ditta a Torino fin dagli anni Ottanta, oggi si commuova alle lacrime nel salutare il rientro a casa di Bersani, Speranza, e forse pure D’Alema. Capisco perfettamente il suo stato d’animo, ho anch’io passato decine e decine di notti davanti ad un bicchiere di vino a discutere coi compagni nei Festival, conosco lo spirito di comunità, di idem-sentire che si creava, che esisteva effettivamente tra chi conduceva battaglie politiche insieme, anche se spesso erano battaglie perdenti (non tutte, in verità). Da iscritto al PD, vidi piangere altri militanti dopo la scissione di Bersani, la cosa mi urtò molto e venni a parole grosse con chi non tollerava la fine di un’epoca (eravamo al Governo con Renzi a fare riforme su riforme …), a me pareva una follia non approfittare dell’occasione per mettere quanto più fieno nella cascina del riformismo. Ma sappiamo com’è andata: altre scissioni hanno squassato il Partito (Renzi, Calenda) e oggi c’è chi piange per la nostalgia di quei tempi. Rispetto la commozione di Livia e di tutti gli altri, ma sono sempre più convinto che la sinistra (o come diavolo volete chiamarla oggi) o cambia il mondo o non serve a nulla. E per cambiare bisogna governare. L’opposizione, nel caso, deve essere una sfortunata parentesi e deve servire a riorganizzare il programma e il modo di comunicarlo. Il massimo accettabile è una legislatura ma, se gli avversari sono incapaci come quelli di adesso, i tempi possono essere molto più corti e non bisogna tergiversare, bisogna inserirsi nelle crisi degli altri e trarne il massimo del vantaggio. Col Congresso non sono finite le traversie del PD: quella spaccatura del sondaggio esiste da oltre un secolo e “infiniti addusse lutti agli Achei”. Sbaglierò, ma nessuno dei contendenti per la Segreteria pare avere le chiavi per risolvere un equazione che pare irrisolvibile come il teorema di Fermat. Poi in realtà si risolse anche quello, ma sono serviti 360 anni. Non abbiamo tutto quel tempo lì …
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