Nei Paesi dove la bistecca è quasi una religione (non solo quelli anglosassoni, ma anche Firenze, la Toscana, ...), è pressoché rituale chiederne all’ordinante il grado di cottura: rare, medium, well done?, al sangue, media, ben cotta? Sono tre legittime possibilità fra cui ognuno sceglie secondo i propri gusti o abitudini (personalmente la preferisco rare, anzi molto rare, tanto che un imperturbabile cameriere britannico una volta mi rispose con un impagabile: “I’ll bring you alive, sir!”). Bene, quando si sceglie la scelta dev’essere tra possibilità omogenee, tutte paragonabili e fungibili tra loro. Nessuno chiederebbe mai: vuoi una bistecca o il sol dell’avvenire? Noi gente di sinistra (o giù di lì …) invece da oltre un secolo ci balocchiamo con una ”scelta” tra i possibili gradi di cottura della strategia di intervento politico sulla società: massimalista o riformista, come se si trattasse di due possibilità omogenee, tra cui scegliere secondo le proprie propensioni, gusti, o anche stati d’animo. Preferisci puntare dritto alla meta, incurante delle probabilità di successo, disdegnando mediazioni, compromessi o negoziazioni, o preferisci misurarti con la necessità di ottenere comunque un qualche risultato tangibile, seppur non ottimale, ma almeno un po’ migliorativo della situazione esistente? Tale domanda è stata posta, papale papale, ad iscritti e militanti del PD in vista del Congresso: - “governare per il cambiamento, anche rinunciando ad alcuni punti identitari o
- essere fedeli alla propria identità, anche rinunciando a governare?”.
Rare or well done? In questo caso, tertium non datur … Le risposte si sono divise equamente, il che confermerebbe che è tutta questione di gusti (oltre che la coesistenza di anime così diverse è per il PD un problema non da poco …). Ma la domanda è fuorviante perché le due alternative non sono affatto fungibili e le conseguenze politiche connesse sono tali da cambiare radicalmente il rapporto con la società. Il massimalista NON fa politica: aspetta con fiducia incrollabile che si realizzino le condizioni per il radicale inverarsi delle sue aspettative. Attesa spesso messianica …! Il massimalista non transige: accetta solo il risultato massimo, disdegna mediazioni, compromessi e tutto quello che comportano nella vita politica. Protesta, si agita, a volte passa persino a vie di fatto, ma rifiuta mezze misure. Il massimalista si crogiola nel sogno identitario, si costruisce un guscio di suoi simili, con i quali coltiva la speranza nell’avvenire e non fa nulla di concreto perché essa diventi realtà. Il massimalista confida di essere in sintonia con un “popolo” che non è mai maggioranza (altrimenti governerebbe), che spesso non ha alcuna consapevolezza politica perché è fuori dalle dinamiche sociali, ma che gli conferisce la granitica certezza, tutta soggettiva, del risultato finale. Il massimalista è sempre “populista”, perché dal popolo è convinto di derivare la legittimazione del suo agire. Ha un programma demagogico, spesso schematico, di facile comunicazione e comprensione. Non si preoccupa granché di come realizzarlo: l’importante è individuarlo come meta da raggiungere, prima o poi. In definitiva, questo massimalista ha atteggiamenti assimilabili (e spesso indistinguibili) dalla destra, che è strutturalmente populista e demagogica. Si potrebbero fare mille esempi di questa oggettiva convergenza di obbiettivi. Cosa sono il superbonus al 110%, il reddito di cittadinanza, l’anticipo pensionistico, l’appiattimento del merito nella scuola e nella pubblica amministrazione, il giustizialismo, l'assistenzialismo, l’anticapitalismo anti-sistema, la diffidenza verso i diversi, spesso negata a parole ma praticata nei fatti? E Giuseppe Conte che, con la sua pochette, passa da Salvini a Zingaretti, così, in un batter di ciglia? E Zingaretti che magnanimamente lo promuove “riferimento fortissimo …”? Difficile distinguere tra destra e sinistra. E quando questo massimalismo occupa la sinistra, pretende di essere, solo lui, “vera sinistra”, egemonizza l’area del dissenso, malgrado le oggettive convergenze con la destra, ecco che si crea una violenta distorsione del panorama politico. In sostanza, non si capisce più niente. Pensare che essere massimalista o riformista sia come gradire la bistecca più o meno cotta suggerisce che la bistecca sia sempre quella. E invece no. Il massimalismo è una posizione solo ideologica, non politica, nel senso che non incide, se non in negativo, sulla costruzione di un mondo migliore, più emancipato, dove i diritti ed i doveri siano correttamente bilanciati. Occupa “manu militari” la sinistra dello schieramento politico e ricaccia verso destra ogni altra posizione. Da oltre cent’anni, il massimalista taccia il riformista di essere “oggettivamente” strumento della destra e di fare il suo gioco. Ed invece è vero il contrario. Venendo a noi, in presenza non di uno, ma due, forse tre, quattro populismi (in Italia ne abbiamo una collezione completa per tutti i gusti, dal berlusconismo delle origini, al leghismo salviniano, al melonismo DOC, al grillismo cinquestelle vecchio e nuovo, e a buona parte del PD – direi metà circa –, seppur sotto le mentite spoglie della sedicente “vera sinistra”), qualsiasi riformismo viene ricacciato al centro, buttato verso destra, ed è costretto, per distinguersi, a proclamarsi perlomeno “centrista”. Ma è una bufala bella e buona. Il riformismo oggi in Italia è tutto fuorché centrista, nel senso di moderato, equidistante. All’Italia oggi serve un riformismo radicale, profondo, graduale e realistico ma fortemente determinato; un riformismo che deve farsi spazio sulle proposte concrete, contando sul fatto che “il buon senso” NON resti a lungo acquattato dietro “il senso comune”. Altro che centrismo! Erano centristi Gobetti, Rosselli, Salvemini, Ernesto Rossi, o più recentemente Walter Veltroni, Matteo Renzi e Mario Draghi? Il riformismo si contrappone ad ogni tipo di populismo, comunque si voglia definire, e non deve preoccuparsi di chi si auto-dichiara “più di sinistra”. Deve avere il coraggio di essere alternativo, razionalmente alternativo, alle ricette demagogiche che arrivano dai populisti di ogni colore. Deve confidare che esista un gran numero di cittadini di “buon senso” che capiscono che non basta alzare la voce per avere ragione, né proclamarsi paladini degli ultimi per risolvere i loro problemi (che sono davvero una priorità, ma solo se arrivi a governare, altrimenti al massimo assolvi ad una funzione consolatoria, più tipica del terzo settore che di un partito politico). Dobbiamo superare questo equivoco esiziale; dobbiamo dichiararci e dimostrarci riformisti ma dobbiamo al più presto tornare a governare per mettere in cantiere quello che serve per migliorare la società. E se non si potrà fare tutto e subito, si farà un po’ alla volta, con chi ci sta. Questa è la politica. I populisti sono gli avversari, dovunque si vogliano collocare. Preoccupa che una posizione così radicale spaventi “les bourgeois”? A me spaventa di più l’indifferenza di chi non crede più in nulla e resta a casa schifato dall’offerta politica, ingrossando le file dell’astensione giunta ormai a livelli patologici. Se la politica riformista non riesce a coinvolgere la parte più attiva e costruttiva del Paese, lascia lo spazio ad avventurieri, dilettanti, demagoghi che, spalleggiati dai media, avranno al loro arco le frecce della semplificazione, che diventa banalizzazione, poi pressappochismo, poi post-verità, infine mistificazione. È la fine della democrazia occidentale come l’abbiamo costruita e conosciuta nel corso dei secoli e purtroppo i segni di questa crisi sono sempre più evidenti. È ora di superare equivoci e vecchi steccati e dedicarsi alacremente al cambiamento, Insomma, chi ama la bistecca vuole mangiarla, al sangue, media o cotta, e non si accontenta di una eloquente descrizione idealizzata.
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