Ogni 8 marzo è consuetudine, ormai anche un po’ abusata, parlare di donne. È in effetti la giornata internazionale della Donna (con una maiuscola piuttosto ipocrita), istituita dall’ONU quasi 50 anni fa. Spesso è impropriamente chiamata Festa, come se ci fosse chissacché da festeggiare ... Non ho mai amato la ricorrenza, perché penso sia un modo fin troppo facile, invalso da tempo presso le nostre società che si dimostrano spesso tutt’altro che attente alle tematiche femminili, per mettere a posto la coscienza di tanti maschi cui l’emancipazione femminile procura ancora molti mal di pancia. Una mimosa all’anno e passa la paura … In realtà servirebbero 365 giornate della donna, altro che 8 marzo, altro che maiuscole, … Comunque, nell’occasione mi pare molto pertinente il tema, improvvisamente tornato a galla in questi giorni a causa di un disegno di legge presentato da Fratelli d’Italia, della cosiddetta “maternità surrogata”, nota anche come “utero in affitto”. Già il nome mette i brividi, intriso com’è di sensazionalismo, di scandalismo, di bieco materialismo, cose di cui proprio non si sente la necessità, quando si è di fronte ad argomenti così delicati. Tant’è. Come si sa, si tratta della pratica di affidarsi ad una donna terza, estranea alla coppia, per impiantarle nell’utero un embrione, farle gestire la gravidanza, il parto, per poi “restituire” il neonato ai genitori “legali” che l’hanno “ordinato”. Quasi sempre tutto questo avviene dietro pagamento di una certa cifra, che varia di moltissimo a seconda del Paese dove risiede la donna che offre la prestazione: si va da poche migliaia di euro, nei paesi più poveri, a diverse decine di migliaia e più, in quelli più ricchi. Pare esista un vero e proprio tariffario … Non voglio entrare nel merito né tecnico (non ne sarei capace) né giuridico (men che meno) della questione. So che in alcuni Paesi, tra cui il nostro, la pratica è vietata, in altri è regolata da norme (l’UE l’ammette solo senza scopo di lucro …), in altri ancora non lo è e quindi tutto viaggia sull’orlo della clandestinità e dell’accordo tra privati. Inutile sottolineare la valenza morale e le implicazioni sociali che comunque si pongono. Mi interessa quindi condividere alcune riflessioni sul concetto che a me pare alla base di una simile pratica, ovvero che la procreazione sia un fatto esclusivamente “fisico”, una prestazione fornita con il corpo da una donna, come fosse una prestazione professionale qualsiasi. Ovvio che in quest’ottica basta l’accordo tra le parti, su modalità e su remunerazione, con un contratto privato, comunque fonte di obbligazioni per i contraenti. Perdonatemi la crudezza, ma è come se mi servisse un autista, oppure qualcuno che assista un anziano, oppure ancora un imbianchino o un idraulico: se non so, non posso (escluderei il non voglio), fare una certa cosa, pago perché qualcuno la faccia al mio posto e io beneficerò del risultato. Per quanto brutale, questa impostazione rende conto di tutto quello che c’è dietro alla maternità surrogata, incluso il pagamento della prestazione. Quando si dice “utero in affitto”, d’altronde, si dice esattamente questo. E che la cosa possa avvenire gratis, per puro altruismo, a me pare solo un pio desiderio. Bisogna a mio parere essere franchi sull’argomento e non nascondersi dietro ad altre motivazioni, più o meno nobili. La sostanza è quella lì: si paga una prestazione. Questo non è necessariamente disdicevole o immorale, ma è inutile dissimulare. Se accettiamo questo punto di vista, mi pare che normare la pratica risulti assai semplice. Probabilmente bastano già le norme che regolano le prestazioni professionali. Però c’è un altro modo di vedere le cose: ovvero considerare che il rapporto che si instaura tra una madre ed il figlio in grembo è un rapporto speciale, denso di significati morali, psicologici, sociali, e non può essere ridotto ad un semplice atto “meccanico” composto da gestazione e parto. In questo caso è evidente che nessun contratto potrà mai descriverlo, regolarlo, gestirlo, perché in questa ottica la “produzione“ di un figlio non è affatto solo una “produzione”, che si svolge nell’arco di nove mesi, ma un evento, un processo, che lega indissolubilmente la madre con il figlio e nulla e nessuno potrà mai avere titolo per interferire. Ovvio che con tale impostazione la società deve preoccuparsi di proteggere il rapporto tra madre e figlio e deve quindi creare un quadro normativo tale da garantire ed escludere interferenze esterne. Non si tratta di creare una normativa etica, quanto piuttosto di garantire i diritti della madre e quelli del figlio ed impedire che si creino rapporti sociali potenzialmente conflittuali e nocivi per i due soggetti. Lascio ai giuristi la definizione degli strumenti normativi più adeguati, ma senza dubbio in questo quadro una società ha il diritto di proteggere le eventuali parti deboli da sopraffazioni o anche da un indebito commercio. Non credo di avere schematizzato troppo l’argomento, che sicuramente ha anche altre e diverse sfaccettature, ma alla fine il nocciolo della questione mi pare quello. Il disegno di legge di FdI mira ad impedire, punendolo, anche il caso in cui una coppia italiana ricorra alla pratica andando all’estero, in Paesi dove essa è consentita (ce ne sono parecchi, dagli Stati Uniti al Canada, dalla Russia all’Ucraina). Si tratta quindi di un ulteriore giro di vite rispetto alla legislazione odierna. Non essendo un esperto, non voglio pronunciarmi sugli aspetti legali, ma qui stiamo affrontando il problema in generale, e questo è solo un corollario. Resta allora la domanda di fondo: è giusto impedire questa pratica o bisogna lasciarla alla sensibilità delle parti in causa (estero o non estero)? Esistono altri modi per soddisfare la legittima voglia di genitorialità di coppie che non riescono ad avere figli con metodi naturali o con metodiche ammesse dalla legge (procreazione assistita)? Le norme in vigore (o da completare al più presto) mettono già a disposizione delle coppie (etero e si spera un giorno anche omosessuali) lo strumento dell’adozione, che pone riparo ad un rapporto madre-figlio che si è già interrotto (morte, abbandono, …), o che comunque è in forte crisi (inadeguatezza fisica o morale della madre o dei parenti prossimi), e fornisce al bimbo la possibilità di fruire di una famiglia che lo accolga e lo conduca attraverso lo sviluppo della sua esistenza. L’adozione sana un vulnus di cui è vittima in ultima analisi solo il bimbo, atteso che la madre per qualche motivo non vuole o non è in grado di occuparsene. Sono questioni molto delicate sulle quali non è opportuno, a mio avviso, prendere posizioni ideologiche di bandiera. Si rischia di affrontarle con la mentalità da stadio e non con la serietà e l’approfondimento che meritano. Dico solo che, se vogliamo riferirci alla triade: Donna, Vita, Libertà, dobbiamo chiederci quale posizione rispecchi di più le tre parole d’ordine. Se la donna e solo la donna può dare la vita, la libertà può essere anche quella di farlo su commissione? Quanto pesa l’aspetto economico, di mercificazione, sulla pratica? È tollerabile che una vita costi 1.000 o 2.000 euro in Ucraina e 100.000 dollari in Canada? È tollerabile che la donna sia considerata solo un “contenitore”, per di più a pagamento? Non nascondo di essere più propenso al divieto, ma mi rendo anche conto che vietare le cose possibili spesso vuol dire solo spingerle nella clandestinità, senza tutele, senza un quadro normativo, senza punti di riferimento sociali. Forse una società evoluta non deve e non può limitarsi a chiudere gli occhi e trincerarsi dietro al proibizionismo. Vale per questo e per mille altri casi …
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