Che strano effetto vedere a breve distanza di tempo l’ultimo film di Walter Veltroni (Quando) e quello di Nanni Moretti (Il sol dell’avvenire) … Non sto a raccontarveli perché è meglio andare a vederli, al cinema, al buio, sul grande schermo. E anche se non hanno effetti speciali (figuriamoci …!), nella sala vera (e non sul divano di casa) è sempre tutta un’altra cosa. Vorrei trasmettervi la curiosità di vederli e mi piacerebbe, dopo, aprire un bel dibattito … Si leva una voce fantozziana dal fondo: “No, il dibattito no …!”. Però, però, …, date le caratteristiche dei due film, un bel dibattito, come si faceva una volta al cineforum, ci starebbe proprio bene. E già, perché si tratta di film di altri tempi, che parlano di altri tempi, di persone di altri tempi, di storie d’altri tempi, di un mondo che non c’è più “e il tempo andato non ritornerà”, come cantava Franceso Guccini tanti decenni fa. Per carità, entrambi i film sono pieni di sensibilità modernissime, quotidiane, pieni di tic, di manie, di atteggiamenti tipici del giorno d’oggi, ma ciononostante risultano intrisi di un passato, che peraltro è anche il mio, che fanno fatica a considerare davvero tale. Walter e Nanni, li chiamo per nome anche se non ci ho mai parlato insieme, due “compagni”, due quasi settantenni, hanno vissuto esperienze culturali, sociali, politiche, comuni a molti di noi, per cui non si fa molta fatica a mettersi in sintonia con i loro sentimenti, almeno spero, credo, … Nei loro film si riflette, si ride, ci si commuove, ma in entrambi la nostalgia è struggente: addirittura Moretti pretende di riscriverla, la Storia, rendendo reali eventi che (purtroppo, e qui viene il groppo anche a me …) non sono mai avvenuti. Cerca addirittura di riparare l’errore storico, l’errore capitale, l’errore che è all’origine di tutte le traversie della sinistra italiana, quell’infausto supporto all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, supporto così convinto e congruente con la "linea", ma così profondamente antistorico e soprattutto suicida. Hai voglia a sognare festosi cortei tipo Quarto Stato, con bandiere rosse e ritratti di Lev Trotzki, con volti fieri, felici e convinti di essere sulla punta di lancia della Storia, di essere l’avanguardia di un mondo nuovo, e soprattutto più giusto! Se non è andata così, non è per una beffa del destino cinico e baro, ma per scelte consapevoli di una classe dirigente a cui pochi, troppo pochi, osarono opporre un rifiuto, imporre un’alternativa, che pure c’era, era lì evidente, pronta da cogliere, ma che non fu colta. Come non fu colta la carica di partecipazione emotiva di un milione e passa di partecipanti ai funerali di Enrico Berlinguer, altro momento topico, al culmine di un’involuzione politica cominciata con l’assassinio di Aldo Moro e finita (ma solo parzialmente …) con la svolta della Bolognina di Achille Occhetto, più di dieci, dico dieci, anni dopo, quando finalmente fu chiaro a (quasi) tutti che la falce e il martello e la parola “comunista” erano rottami di un'altra epoca e ormai giacevano nell’abisso della Storia. Ma ci voleva davvero il crollo del Muro di Berlino per capirlo? Non era chiaro fin da quando Berlinguer dichiarò che preferiva il mercato all’economia pianificata, che la spinta propulsiva della Rivoluzione si era esaurita, che era meglio la NATO del Patto di Varsavia, …? Se la Storia è andata com’è andata, ripeto, non è per uno scherzo del destino, ma perché uomini, persone in carne ed ossa, con le loro organizzazioni, l’hanno spinta in quella direzione e oggi non basta, purtroppo, sognare un altro corso degli eventi. Le porte scorrevoli si aprono e si chiudono … o si passa oppure no. Certo, l’artista ha tutto il diritto di sognare, ha tutto il diritto di immaginare anche un mondo parallelo, ma è arte, non è politica. La politica deve vivere la realtà per quella che è, ed è a quella che deve applicare le categorie dell’analisi, progettando e realizzando i cambiamenti necessari e soprattutto possibili. Tutto il resto è a-politica, è sogno, è, nel nostro caso, nostalgia, che provoca malinconia, ma anche malanimo, provoca frustrazione, soprattutto diventa cattiva consigliera. Tutti sentimenti poco utili quando devi trovare la via per fermare Meloni ed il cognato suprematista, con tutta la banda al seguito. Però quel sentimento è forte, scava profondo, riempie anche gli occhi di lacrime, ma non aiuta, per niente. Eppure c’è chi tenta e spera ancora di tradurre quell’emozione in un progetto politico, in un’altra epoca, questa qui presente. E così inevitabilmente si finisce dritti nella retorica, nel sentirsi reduci o peggio nel voler ricostruire il simulacro di un passato ormai andato definitivamente. Sono tutte premesse che sono pronte a sfociare nel populismo, nel vittimismo, e che si traducono nella pura testimonianza di brandelli di passato che, guarda caso, sono quelli della nostra giovinezza. Ormai andata. E intanto chi lo cambia il presente? Come lo si cambia? Con che strumenti? Il riformismo, che è l’unica risposta concreta, non passa dalla nostalgia, il riformismo è scommessa sul futuro. La Storia, quella resta custodita in ognuno di noi, è un bagaglio che ci arricchisce, ci dà punti di riferimento, esempi buoni e cattivi, ma il futuro è tutto nostro e nessun nuovo Quarto Stato ci verrà in soccorso, non in quel modo lì, almeno. E' solo nostra la responsabilità di quello che facciamo, di quello che costruiamo, basta non restare intrappolati in un sogno. Un sogno che corre il rischio di trasformarsi in un incubo. Gli errori capitali del passato devono insegnarci a non avere paura del futuro, a non avere paura di cambiare, anche bruscamente, anche radicalmente. Sono pochi ma solidi gli ideali guida che ci servono sempre, tutto il resto siamo noi a doverlo aggiungere. Qui ed ora. Senza nostalgia.
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