Studenti variamente organizzati, in diverse occasioni ed anche davanti alla massime autorità del Paese (il Presidente Mattarella), hanno denunciato con toni particolarmente duri ed accorati la scuola e l’università che sarebbero, a loro dire, troppo inclini ad utilizzare la meritocrazia come strumento di selezione ed incentivazione degli studenti, soprattutto dei meno dotati di mezzi economici. Questo creerebbe una discriminazione secondo loro inaccettabile verso quelli poveri ma meno meritevoli, i quali mal vivrebbero lo stress derivante dai confronti. Insomma, gli studenti ricchi potrebbero permettersi il lusso di prendersela comoda, anche di essere asini, e in qualche modo la sfangherebbero, i poveri no, perché altrimenti perderebbero le borse di studio e con esse la possibilità di continuare a studiare. L’argomento ha subito trovato vasta eco in ambienti diciamo vagamente antagonisti, radicali, “di sinistra” con le virgolette, ambienti che già da tempo contestano la cosiddetta meritocrazia (qualsiasi cosa essa significhi), in quanto generatrice di stress, di ipotetici ricatti, di diseguaglianze, frutto perverso dell’onnipotente e onnipresente neo-liberismo. Noi cartesiani, forse anche un po’ schematici e sempliciotti, ribattiamo che la Costituzione all’art. 34 dice chiaramente che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. “Capaci e meritevoli” significa non tutti, ma quelli che dimostrano di meritarlo. E gli altri? Gli altri devono solo cercare di dimostrarsi “capaci e meritevoli”: se non lo fanno, non vengono né mandati al confino, né emarginati dietro la lavagna con le orecchie d’asino; semplicemente lo Stato fornisce loro il servizio formativo, come a tutti. Né più né meno. Qualcuno ha invece inventato il "diritto al successo formativo", cioè uno strano diritto ad essere promossi e pure premiati, anche se si è svogliati, negligenti, ignoranti; si tratta con ogni evidenza di una formula totalmente vuota di significato: esiste e va promosso il diritto alla formazione, quello sì, una formazione fatta con metodi professionali e personale adeguato. La testa, l'intelligenza, la volontà, deve mettercela sempre l’allievo. Ma, si ribatte, il merito presuppone competizione, la competizione genera stress, lo stress causa infelicità e disadattamento, con conseguenze a volte estreme; e allora smettiamola di selezionare i migliori e diamo sostegno economico illimitato a tutti, anche a chi non si applica. E vada come deve andare. Sarò sempre più sempliciotto, ma questa a me pare una follia. La competizione fa parte della vita, che piaccia o meno. Pensare di eliminarla (e come, per decreto?) pare una roba da “rivoluzione culturale cinese”, da mondo distopico, dove tutti chinano la testa e seguono docili qualcuno che dà ordini, visto che nessuno è invogliato ad alzarla, la testa. La competizione è presente in tutto ciò che vive, anche nei vegetali, ed è alla base dell’evoluzione di tutte le specie viventi. Qualcuno dimostri il contrario, se ne è capace. Quindi, la scuola deve preparare anche alla competizione, e deve farlo in modo scientifico, non da caserma. Deve insegnare che la competizione non è la legge della giungla, ma un rapporto sociale regolato da norme e consuetudini sulle quali lo Stato deve vigilare. Bisogna insomma far capire agli studenti (ai genitori e agli insegnanti …) che lo sforzo scolastico è nulla rispetto a quello richiesto dalla vita e che la fatica dello studio è tutta e solo nell'interesse dello studente. La competizione, prima o poi, bisognerà affrontarla, spesso anche quella impari e violenta, e quindi è meglio che la scuola insegni come gestire il confronto in modo civile e democratico. Fuggire non serve a nulla. Preoccupiamoci allora che le condizioni di partenza siano davvero garantite uguali per tutti, che le regole siano chiare ed eque, che esistano verifiche e controlli, e non perdiamo tempo con i ricchi, che di privilegi potranno comprarsene sempre e senza difficoltà. La vita insegnerà anche loro a gestire le difficoltà … Vogliano “che i ricchi piangano”, come chiedeva il più stupido manifesto elettorale della storia della democrazia italiana? Un grande socialdemocratico come Olof Palme diceva: “Noi combattiamo la povertà, non la ricchezza …!”. E per combattere la povertà serve che i poveri si applichino, si sforzino. La fisica insegna che ogni cambiamento di stato richiede energia. Lo Stato deve dare a tutti le stesse possibilità, ma non può garantire a tutti il risultato, che parte sempre dalla volontà e dalla responsabilità personale. Abbiamo avuto esempi nefasti di Stati dove l’uguaglianza era imposta per legge … Quello che serve è una gigantesca operazione di comunicazione verso tutti gli utenti della scuola (e dell’università) e una specifica preparazione dei docenti che vanno addestrati, selezionati e valutati nelle loro prestazioni (che poi inevitabilmente si riflettono sulle prestazioni degli allievi ...). Inutile cercare scorciatoie: la “buona scuola” non è quella che promuove tutti indiscriminatamente, ma quella che fornisce gli strumenti adatti a vivere nel mondo reale, ad emanciparsi, rispettando le regole, il prossimo ed il fair play. I ragazzi spaventati dalla “competizione” (da cui peraltro non rifuggono quando guardano una partita di calcio o di tennis, o altro …) devono uscire dal bozzolo autoreferenziale dei social onnipresenti, che può condurli in un abisso senza fondo, e rapportarsi, naturalmente, allegramente, con compagni, amici, insegnanti e pure con le famiglie, che spesso non capiscono l’importanza della posta in gioco (l’avvenire dei figli) e peggiorano la situazione con la pressione e l’apprensione. Nella scuola ci si prepara, ci si allena, si sbaglia e si riparano gli errori: e ci si migliora, sempre. Tutte cose che non sempre saranno concesse nella vita.
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