Il terrorista odia la politica. Il terrorista non parla di politica, né vuol sentirne parlare. Il terrorista è certamente un asociale, uno che non ha in alcun conto altro se non il proprio ego smisurato, che impone a colpi di mitra e di bombe, ammantato in un pesante sudario ideologico e religioso. Il terrorista non ha obbiettivi tangibili: chi ha buttato giù le Torri non promuoveva una speculazione edilizia a South Manhattan, chi ha sparato al Bataclan con proponeva un festival musicale alternativo, chi guidava il camion sul lungomare di Nizza non stava cercando un parcheggio, e chi oggi spara a Bruxelles non sta difendendo l’onore della famiglia … Quelli avevano e hanno tutti un solo obbiettivo: uccidere il più persone possibile, con l’unico scopo di minare la stabilità morale e psichica della comunità, togliendole punti di riferimento, e lasciandola in balìa del terrore puro. In nome di una supposta legge religiosa spietata e totalizzante, assetata di sangue. Tutto il contrario della politica, che è strumento di elaborazione ideale, di gestione, di coinvolgimento, di collaborazione, di attività sociale. Un sociopatico non ha bisogno della politica: ne diffida, la teme, la evita e, se può, la distrugge. Proprio come i terroristi di Hamas. Di fronte agli eccidi indiscriminati di gente inerme e pacifica, chi mai può mettersi a disquisire sulle capacità politiche di Bibi Netanyahu? Come dopo le torri, chi poteva discutere dell’inadeguatezza di George W. Bush e della sua sudditanza al Vice Dick Cheney? Devi solo difenderti e reagire, in fretta e bene. E se vuoi farlo in maniera efficace, devi essere preparato a farlo e non improvvisare in modo scomposto. Osama Bin Laden con Al Qaeda andava messo in condizioni di non nuocere, stessa cosa per Daesh. E adesso per Hamas e simili. Presto e bene, con efficacia e senza troppi indugi. Ciò non toglie che, dopo la reazione, checché possa auspicare il terrorista di turno, la palla passa di nuovo alla politica, con i suoi strumenti e la sua logica, la sua razionalità. Altrimenti si entra in una spirale senza fine, che porta alla negazione dei valori fondanti della nostra civiltà e all’abbrutimento anche dei cittadini più pacifici e civili. Il terrorista, fosse per lui, vivrebbe di bombe e di sangue. Noi invece abbiamo un altro dovere: quello di salvaguardare i nostri principi da chi vuole minarli alla radice. Israele vive da quasi ottant’anni in uno stato di forte instabilità internazionale e di perenne incertezza del futuro. Malgrado ciò, oggi lo Stato d’Israele è un Paese libero, democratico, sviluppato, tecnologicamente molto avanzato, civile, ma ancora tremendamente instabile. E le vicissitudini politiche degli ultimi anni, i frequenti ricorsi alle elezioni anticipate, i governi succedutisi, il continuo ritorno a Netanyahu, stanno lì a dimostrarlo. Israele è anche uno Stato ebraico, come solo recentemente (2018) specificato in una delle Leggi Fondamentali (un vero testo unico costituzionale lì non esiste): Israel as the Nation State of the Jewish People, legge approvata con una maggioranza risicata e dopo intenso dibattito. Lo Stato d’Israele oggi è ostaggio di una minoranza, non marginale, di fondamentalisti religiosi che purtroppo ne condizionano la vita politica e che in tempi passati hanno anche pesantemente intralciato gli stentati tentativi di pace (l’assassinio di Yitzhak Rabin, commesso nel novembre 1995 da un giovane fondamentalista di destra, interruppe il faticoso processo di pace che si era avviato a Camp David con Yasser Arafat, sotto il patrocinio di Bill Clinton). Del mondo ebraico noi europei conosciamo di più la parte progressista, la cui cultura apprezziamo da tempo, con i Woody Allen, i Leonard Bernstein, i Philip Roth, e tantissimi altri che hanno contribuito a plasmare anche la nostra cultura, una parte che non ha avuto paura di ibridarsi, di confrontarsi, senza isolarsi né coltivare complessi di superiorità, supportata anche da un formidabile e proverbiale senso dell’umorismo. Credo che grosso modo (ma non mi addentro in aspetti specifici, peraltro estremamente complessi) ci si possa ricondurre alle differenze tra i due filoni della cultura ebraica, quello più progressista, aschenazita, e quello più tradizionalista, sefardita. Questa divisione non è senza conseguenze sulla vita del Paese e sui suoi rapporti internazionali. La destra ha sempre rivendicato una sorta di supremazia ebraica sullo Stato, che certo non ha favorito la instaurazione di rapporti “amichevoli” con gran parte della popolazione musulmana, araba e palestinese. In quel lembo di terra affacciato sul Mediterraneo da millenni convivono popoli con culture, religioni, usi e costumi molto diversi. Hanno convissuto sotto dominazioni diverse, ultimo il colonialismo britannico. La nascita dello Stato d’Israele nel 1948 ha senza dubbio portato un elemento di rottura, che purtroppo propaga i suoi effetti fino ad oggi. È evidente che serve un surplus di generosità, di fiducia nel futuro, per cercare una normalizzazione dei rapporti. Il processo è lungo e pare non avere mai fine. La formula ormai “storica” (nata nel 2007, ma se ne parlava già negli anni Trenta del Novecento) del “due popoli, due Stati” rischia di restare un mantra recitato senza convinzione, nella certezza che, ove mai venisse realizzata, porterebbe all’istituzionalizzazione di un conflitto che, in forme diverse, va avanti da quasi ottant’anni. Eppure è ancora oggi l’unica opzione sul tavolo e quindi deve essere perseguita, senza tentennamenti. Bisognerebbe però non limitarsi a sognare anche un altro obbiettivo, quello di “tanti popoli, uno Stato”, ma uno Stato laico e fortemente tollerante. Uno Stato come la Francia, la Germania, l’Italia o il Regno Unito, dove convivono pacificamente (con problemi, certo, ma convivono) popoli diversi, religioni diverse, usi e costumi diversi, in Stati aperti alla libera convivenza di tutti i cittadini, tutti con uguale dignità ed uguali possibilità, dove la religione non esonda nei comportamenti sociali. Dobbiamo ricordare che il Primo Ministro inglese è indiano e che quello scozzese è pakistano? Che i tedeschi che hanno messo a punto il vaccino contro il Covid sono turchi? Che le nazionali di calcio di tutti i Paesi europei sono piene zeppe di calciatori di tutte le etnie? E la West-Eastern Divan Orchestra del Maestro Daniel Barenboim da venti anni suona in un Medio Oriente senza frontiere, con tutti e per tutti, perché la musica, al contrario della religione, unisce. E potrei elencare all’infinito tutti gli esempi di civile e pacifica convivenza, con mutuo rispetto e beneficio, di tanti popoli in uno Stato laico, democratico, aperto e tollerante. È un peccato sognare che anche la terra di Israele e Palestina, in un futuro non troppo lontano, lo diventi? La verità intera non è mai in un solo sogno, ma in molti sogni … (da Il fiore delle mille e una notte, di Pier Paolo Pasolini).
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