Dalle parti della nuova Segreteria del PD si fa un gran parlare di Ulivo: il nome evocato è vissuto come un brand (giustamente) vincente ed allora lo si mette in tutti i discorsi, come il prezzemolo. Nuovo Ulivo … sarebbe un segno di cambiamento, di moderno e di antico. Sarebbe. Attenzione! È solo puro marketing, del più deteriore, direi al limite della propaganda ingannevole, che sarebbe pure reato … Però piace rievocare la giovane Segretaria, allora ancora più giovane, mentre consegna a Prodi una maglietta con su scritto “siamo più di 101”, che erano quelli che avevano affossato la candidatura del Professore al Quirinale nel 2013. Era il tempo eroico di “Occupy PD”, movimento romantico, giovanilista e scapestrato, che si rivoltava contro le barbose nomenklature di partito, schiave delle manovre ed incapaci di rinnovarsi. Poi arrivò Renzi e il rinnovamento (allora chiamato efficacemente seppur con dubbio gusto: rottamazione) non piacque molto ..., tant’è che fu quasi subito stroncato da quella stessa nomenklatura. E il modo ancor m’offende … L’Ulivo restò nell’immaginario di certa sinistra come un ricordo dolce di gioventù, di un momento magico di una vittoria inattesa (nel 1996) e foriera di un cambiamento vero, che lasciò dei segni che vediamo ancor oggi (primo fra tutti, l’euro). Ma l’Ulivo era una costruzione sofisticata, pensata da politici eccellenti, portata a compimento con sagacia e tempismo, tant’è che diede a Berlusconi la delusione più grande della sua vita. L’Ulivo era una macchina politica efficiente, preparata dal basso in oltre un anno di incontri sui territori, dei comitati di base per “l’Italia che vogliamo”, che produssero idee a profusione e soprattutto una nuova classe dirigente. Non era la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, quella che Berlusconi aveva travolto con facilità nel 1994. L’Ulivo era nato per governare, ed in effetti governò. E governò anche bene, almeno fino a quando la Ditta, che allora non si chiamava ancora così, decise che stava diventando troppo ingombrante e che era quindi il tempo di rimettere in riga questi visionari riformisti un po’ presuntuosi, che credevano di avere inventato un partito nuovo. Attenzione, non un nuovo partito, un altro, ma un partito nuovo, perché l’Ulivo era nuovo per davvero. L’Ulivo era quello che, solo dopo un’immensa fatica e certosina pazienza, fu dieci anni dopo il Partito Democratico di Veltroni: non un partito di opposizione, un partito di sinistra identitaria, ma un Partito riformista moderno, fuori dagli schemi della sinistra barricadera e antagonista, cui ancora tanti dirigenti (ed intellettuali) erano affezionati. L’orizzonte era il riformismo di Tony Blair, non le unidad popular sudamericane. Massimo D’Alema nel castello di Gargonza, in uno storico convegno nel 1997, teorizzò e decretò che l’Ulivo non dovesse essere un soggetto autonomo, non doveva ambire a diventare un vero partito riformista moderno, superando i partiti che lo avevano generato, ma dovesse restare un marchio elettorale, da superare al più presto. Infatti non lo diventò e fu superato. Detto fatto. Anni dopo, si creò l’Unione, che con l’Ulivo spartiva solo la “U”, ma in realtà era un orrendo accrocchio elettorale, che andava da Mastella a Bertinotti, con un programma fumoso ed inconsistente, ma di oltre 250 pagine, e che infatti durò “l’espace d’un matin”, dopo un’avventurosa vittoria-non-vittoria, quando la debolezza della destra avrebbe permesso un trionfo. Cadde rovinosamente dopo meno di due anni, riconsegnando a Berlusconi il Governo e l’Italia intera, fino al tracollo del 2011. Il Partito Democratico con Veltroni, che di Prodi era stato il vice, avrebbe cercato (disperatamente) di riprendere il filo del discorso ulivista. Come sia andata a finire è cronaca purtroppo ben nota. Sentire quindi adesso rievocare l’Ulivo da Schlein e sodali fa un po’ rabbia e un po’ impressione: in realtà questo Ulivo, derivato da quello che chiamarono il “campo largo”, sarebbe molto più vicino alla fallimentare Unione che all’Ulivo vittorioso. L’ultimo ulivista vero, checché ne dica il professor Prodi, è stato Matteo Renzi, che infatti nell’Ulivo era nato politicamente, e che, come Prodi, è stato giubilato dalla Ditta di Gargonza. E adesso? Sperano che evocare un nome vincente sul mercato sia sufficiente? E la sostanza politica quale sarebbe? In realtà si sta solo preparando un’ulteriore disfatta, che permetterà a Meloni e soci di governare a lungo. A meno che … La strada alternativa la conoscono tutti: è palese, è tracciata chiaramente, ma nessuno (o quasi) se la sente di percorrerla. Pesa la maledizione di Gargonza, pesa l’infantilismo di chi crede cha basti fare un po’ di casino e due manifestazioni in piazza per entrare in sintonia con l’elettorato, vincere le elezioni e governare, possibilmente a lungo. Non è così. Il PD si è richiuso a riccio, accettando una mortale competizione con il populismo del M5S, ed ha smesso di perseguire una politica concretamente e pragmaticamente riformista mirata a governare e non solo a farsi sentire nelle piazze o in qualche talk-show più o meno amico. Ma davvero pensano che un Landini, uomo per tutte le sconfitte, potrebbe condurli da qualche parte che non sia l’irrilevanza? La Storia dovrebbe insegnare, e invece la si usa solo come serbatoio di sogni e di slogan di facile presa. Temo che il risveglio sarà poco piacevole. |