Da qualche parte nella sinistra si dibatte sul conflitto di classe. Ancora …? Direte voi, forse sorpresi e stupiti. Ancora, ebbene sì … E pare che le teste più fini di quel campo (quanto “largo” non si sa …) tendano a riscoprire la “bellezza” del conflitto, la necessità di prendervi parte, l’ineluttabilità dello scontro (compreso quello fisico?). Ovviamente il compito della “vera” sinistra sarebbe quello di stare dalla parte del più debole, incurante del fatto che questo debole era e debole resta, senza le necessarie riforme. Al massimo lo si consola con qualche slogan, qualche manifestazione “molto partecipata” e qualche salamella d’estate al Festival de l’Unità. Nel frattempo i cattivoni governano, accompagnati dalle nostre maledizioni e dal nostro vibrante sdegno. Come vibriamo noi di sinistra non vibra nessuno … Va be’, c’è poco da scherzare. Che il conflitto esista in natura è esperienza comune: lo sanno i leoni e le gazzelle, ma lo sanno anche idraulici e clienti, vigili urbani ed automobilisti, insegnanti ed alunni, padroni e operai. Infine lo sanno, tragicamente sulla loro pelle, gli ucraini ed i russi invasori come pure gli israeliani e i terroristi di Hamas. Il conflitto esiste da che mondo è mondo e deriva dal semplice fatto che le sfere personali (ma vale anche per Stati e Nazioni intesi come insiemi coerenti) non coincidono, la libertà di ognuno è limitata da quella degli altri, la voglia di emergere ed emanciparsi è atavica e legata all’istinto di sopravvivenza. La relazione sociale è sempre in qualche modo problematica … ma questo non vuol dire che la conflittualità sia una condanna divina. Plauto, e poi Erasmo, e poi Hobbes, teorizzavano “homo homini lupus” (sostanzialmente una costante animale inestirpabile dall’essere umano) come condizione naturale ineluttabile, ma ciononostante l’homo si è evoluto ed ha oggettivamente e progressivamente migliorato le condizioni della sua esistenza. Malgrado i conflitti. Il problema è capire se il conflitto sia funzionale o meno allo sviluppo dell’umanità o se si possa immaginare una loro progressiva diminuzione, una “regolamentazione”, direi un “fair play”, che permetta di ottenere risultati migliori con metodi collaborativi. Giustamente Alessandro Baricco sottolinea che, malgrado tutto l’epos connesso alle imprese guerresche, l’essere umano non dà affatto il meglio di sé nel conflitto, anzi in esso regredisce e diventa una brutta persona. Insomma non c’è bellezza nella guerra, e nemmeno nel conflitto che, una volta innescato, è sempre difficile contenere in un alveo civile. John Nash ha teorizzato (prendendoci un Nobel) che esiste sempre un equilibrio che permette la massima soddisfazione di tutti i contendenti in un gioco con regole certe. L'equilibrio c'è quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento. Per cambiare, occorre agire insieme. Facile a dirsi, direte voi. Ma qual è il compito della politica se non quello di gestire i conflitti, “addomesticarli”, farli confluire in un corso collaborativo e costruttivo? A che serve la politica se non a questo? E allora perché costruire un’etica del conflitto, perché sostenere che “il conflitto è nella natura della democrazia, in qualche modo ne è l’essenza”, che quelle “differenze, che richiamano la categoria della lotta di classe, nella società oggettivamente esistono”, salvo poi aggiungere che “sta alle forze politiche comporre il conflitto, interpretarlo e cercare la sintesi”? E se le forze politiche agissero invece per “smontarlo”, il conflitto? Venendo ai complessi casi della nostra cara parte politica, contestare la nascita del PD nel 2007, dicendo (lo sostiene uno bravo come Matteo Orfini) che sarebbe “nato dalla rimozione del conflitto” e quindi votato al fallimento, non vuol dire contestare l’idea che una società debba tendere alla collaborazione e non allo scontro? Non vuol dire condannarsi allo scontro, ben sapendo che una parte consistente della società non ama il conflitto, anzi lo rifugge? Non significa regalare a chi vende illusioni populiste un consenso che poi non sa gestire per mancanza di progettualità? In definitiva, perché calarsi in un conflitto che non si ha la forza di vincere? Io penso che compito di un partito che vuole governare e cambiare il mondo sia quello di cercare sempre la via della collaborazione per la realizzazione dei cambiamenti, ben conscio che è meglio un piccolo cambiamento che nessun cambiamento, che è meglio cercare di migliorare l’esistente che lamentarsene senza riuscire a modificarlo. Sono “migliorista”? Certamente. A che serve un partito che fomenta il conflitto, invece di prepararsi a prendere il posto di chi governa e fare meglio? In realtà si preferisce dare per scontato che sei minoranza e tale resterai per sempre, condannato alla perenne marginalità. Con lo stessa predisposizione d’animo ci si isola, ci si considera diversi e migliori, e si finisce per restare in un angolo. E da quell’altro angolo della sinistra Carlo Calenda, con la solita ineffabile modestia, rivendica: siamo l'unico partito per cui conta solo il bene del paese e per questo siamo sempre obiettivi nel giudicare i provvedimenti altrui; siamo scrupolosi e attenti nella condotta pubblica, evitiamo conflitti d’interesse e guadagni indebiti. Obietto con forza: “ma come ti permetti?”, davvero credi di essere “l’unico partito”, “sempre obbiettivo”? Queste posizioni apodittiche precludono a qualsiasi collaborazione costruttiva con chicchessia. Chi mai può riconoscerti quelle caratteristiche, senza mettersi a sua volta in posizione subalterna? Quale equilibrio si potrà mai trovare: un “equilibrio di Calenda” al posto dell’”equilibrio di Nash”? L’equilibrio si cerca enfatizzando gli aspetti e gli interessi comuni, non le auto-certificate diversità. Già il PCI negli anno Ottanta pagò carissima questa presunzione di diversità, isolandosi in un ambito di purezza, che portò solo al pentapartito. L’esperienza del PD invece nacque davvero per smontare i conflitti sociali ed è stata compromessa proprio dai nostalgici del conflitto duro e puro, che oggi cercano una strada per garantirsi un po’ di consenso facile con la leva del conflitto sociale. Purtroppo la faccenda è un po’ più complicata e richiede un surplus di intelligenza politica: non basta ergersi a paladini delle minoranze: bisogna offrire loro un’alternativa praticabile e vincente, fatta di buon senso e concretezza. Se i laburisti inglesi, dopo 14 anni di opposizione, torneranno quest’anno a vincere (speriamo) è solo per questo bagno di umiltà promosso da Keir Starmer, dopo gli anni del conflitto cavalcato da leader perdenti come Ed Miliband e Jeremy Corbyn. Qui da noi, possiamo fare un po’ più in fretta o restiamo ancora a lungo a baloccarci col conflitto, i campi larghi, le presunte superiorità morali, continuando a farci del male, senza nemmeno il Mont Blanc di Nanni Moretti da spartire? Auguri, auguri, auguri, …
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