Copio e incollo da Wikipedia: “Per politica ("che attiene alla pόlis", la città-stato) si intende l'attività e le modalità di governo, o anche di opposizione; può riferirsi a stati, confederazioni ed organizzazioni intergovernative, oppure a entità locali e territoriali più circoscritte, come regioni e comuni. Per i cinesi la politica era l'arte di governare, mentre nella Grecia di Pericle era l'arte di vivere assieme”. “Per economia (“gestione dei beni”) si intende il sistema e l'organizzazione dei mercati, risorse, della produttività e del complesso di scambi, produzioni e commerci di oggetti e servizi, di finanziamenti, investimenti e di fondazione di attività economiche in ogni settore, di ogni dimensione e ad ogni scopo. In particolare, l'economia di mercato è la rete tra operatori o soggetti economici che svolgono le attività di produzione, consumo, scambio, lavoro, risparmio e investimento per soddisfare i bisogni individuali e realizzare il massimo profitto, ottimizzando l'uso delle risorse”. È tutto il nostro mondo … È quindi lecito chiedersi quali rapporti debbano intercorrere tra i due ambiti, in un sistema sociale che si definisca democratico. È evidente che non si può fare a meno né dell’una né dell’altra e che entrambe contribuiscono allo stato dei rapporti sociali e al benessere (o al malessere) dei cittadini. Possiamo chiederci quale sia la più importante, la politica o l’economia, e alla domanda non c’è risposta facile: anzi, credo che esistano intere biblioteche in materia. Si può comunque azzardare qualche considerazione. Se l’economia prevale sulla politica, è facile immaginare che, specie nell’economia di mercato oggi universalmente diffusa, l’interesse individuale (che sia privato o aziendale) finisca per diventare egemone, creando condizioni di disparità sociale non auspicabili. Il risultato è il liberismo senza regole, che è fonte di sperequazioni ed infine di tensioni sociali. D’altronde, se è la politica a prevalere sull’economia, se prevalgono esigenze elettorali-assistenziali, è facile scivolare verso il dirigismo, verso quell’economia pianificata che deprime lo spirito imprenditoriale e la iniziativa dei singoli, smorzando le spinte verso l’emancipazione della società intera. Nel corso della Storia abbiamo potuto conoscere entrambi questi eccessi e ne abbiamo potuto valutare le terribili conseguenze, in termini di equilibrio sociale e di garanzie di libertà e giustizia per gli individui. Il capitalismo selvaggio da una parte e il socialismo sovietico dall’altra dovrebbero essere ormai per sempre relegati nell’ambito delle brutte esperienze dalla storia dell’umanità, esperienze da evitare a tutti i costi. Peccato che non basti enunciarlo. Anzi, senza un notevole dispendio di energia il sistema tende naturalmente al punto più basso, ovvero al “liberi tutti”, l’egoismo senza freni connotato da una politica imbelle e una economia onnipossente. La politica di conseguenza, senza la partecipazione attiva dei cittadini, diventa presto autoritarismo e normalmente lascia campo libero all’economia liberista, sfociando nelle democrature che conosciamo e che sempre più si diffondono nel mondo moderno, con buona pace di qualche secolo di lotte per la democrazia vera e partecipata. Per evitare rischi dovremmo convincerci a non tenere mai separate politica ed economia, a considerarle “entangled”, intrecciate ed inscindibili come due stati quantistici, dove qualsiasi parametro si osservi nella prima lo si può osservare anche nella seconda. Governare l’una per governare l’altra, mantenendo un equilibrio delicatissimo che facilmente può rompersi e precipitare tutto il sistema verso forme non auspicabili di democrazia malata ed approssimativa. Le difficoltà che incontra il riformismo moderno nella lotta contro i populismi sono tutte riconducibili alla quantità di energia “morale” necessaria per evitare la prevalenza di un ambito sull’altro e mantenere un corretto equilibrio. Il sistema, se lasciato a se stesso, si avvita verso il punto a potenziale più basso, come una pallina che rotola verso il terreno. Per evitarlo, occorre un’attenzione continua ed energia, tanta energia, che qualcuno (i cittadini con le loro organizzazioni) deve spendere per mantenere il sistema in quota. Quanti politici sono coscienti di questo meccanismo? Quanti operatori economici si pongono domande in tal senso? Ogni politico dovrebbe essere cosciente delle implicazioni economiche delle sue scelte, non orientandole solo al mantenimento del potere, così come ogni operatore economico dovrebbe sempre valutare l’impatto politico e sociale delle sue decisioni, non facendosi pilotare solo ed esclusivamente dal profitto immediato e particolare. Non è facile, anzi è difficilissimo, ma da quest’equilibrio, da questo “entanglement”, dipende la possibilità di sviluppo ulteriore del genere umano nel suo complesso. Il problema ambientale e la relativa indispensabile transizione energetica sono un formidabile campo di prova di questa capacità. Ormai tutto il mondo è un’isola densa di interconnessioni, non esistono e non esisteranno più aree separate o compartimenti stagni. Lo sviluppo sarà o di tutti o di nessuno: certo, ci saranno velocità diverse, anche diverse accelerazioni, ma la direzione del progresso non può che essere questa, se vogliamo progredire per davvero. Chi è indietro dovrà accelerare di più e quindi immettere più energia nel sistema, ma nessuno può restare a guardare. Purtroppo la coscienza di questi problemi sembra molto carente, sia tra i cittadini che tra i governanti, ma il tema è imprescindibile, piaccia o meno, e deve risultare centrale in ogni progetto di gestione della società. L’alternativa (malaugurata) è un progressivo imbarbarimento delle società, che preluderebbe ad una crisi senza prospettive di progresso: una specie di mondo distopico, parente stretto di quello descritto in “1984” da George Orwell. Pubblicato nel dopoguerra (1949), prefigurava un oscuro futuro per quasi quarant’anni dopo, futuro che potrebbe arrivare con soli altri quaranta anni di ritardo. Sono solo attimi di storia, mica sono secoli … attimi in cui possiamo condizionare in modo più o meno positivo tutto il nostro futuro, punti di svolta che decidono la direzione dell’umanità. Il disgregamento e la caduta dell’impero romano non ebbero conseguenze dirette sulla storia dell’Oriente asiatico, mentre condizionarono tutta la storia dell’Occidente. Oggi la direzione che sapremo imprimere alla nostra evoluzione condizionerà tutto il mondo, senza esclusione alcuna. Nel 2024 oltre quattro miliardi di persone avranno la possibilità di esprimere il proprio contributo nei rispettivi Paesi, tramite elezioni più o meno libere. Chi può, e noi occidentali possiamo ancora, dovrebbe non perdere l’occasione per dare un chiaro senso al proprio voto, evitando avventure dirigiste o liberiste. Ne saremo capaci? Ora come non mai, è opportuno augurarci un buon anno nuovo.
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