Qui da noi il populismo nasce con la morte dei grandi partiti del Novecento, conseguenza della fine della guerra fredda e della crisi delle ideologie, quelle che avevano indirizzato il pensiero e la linea politica per un gran numero di cittadini elettori. Questa non è un’analisi nuova né originale. Il primo populista moderno ad entrare prepotentemente sulla scena politica è stato senza dubbio Silvio Berlusconi nel 1994: il suo partito Forza Italia, costruito in pochi mesi sulla struttura aziendale di Publitalia e con il potente supporto mediatico di Mediaset, riuscì nell’impresa non facile di raccogliere tutti quelli che NON erano né volevano essere di sinistra, né di centrosinistra, tutti questi accomunati nella immaginifica ed icastica definizione di “comunisti”. Anche se i comunisti erano già stati inghiottiti dal tempo … Come sappiamo, funzionò a meraviglia e Berlusconi, pure carico di un conflitto di interesse mastodontico e di una reputazione non proprio specchiatissima, divenne il padre-padrone di quell’area politico elettorale orfana della Democrazia Cristiana (la parte destra), dei leghisti di Umberto Bossi, allora secessionisti, ed anche della destra-destra, guidata da Gianfranco Fini, che aveva avviato un progressivo e faticoso distacco dalla tradizione post-fascista del MSI, costruendo Alleanza Nazionale. Un capolavoro politico quello di Berlusconi, che portò alla vittoria (effimera ma molto significativa) nelle elezioni del 1994. Nulla sarebbe più stato come prima … Il campo avverso si trastullava con la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, ben distinta dai popolari di Mino Martinazzoli, ai quali il Vaticano aveva “caldamente” sconsigliato di allearsi con la sinistra, ancora troppo “comunista”. Da allora il centrodestra ha sempre più affinato gli strumenti del populismo, perfezionando l’offerta attraverso varie peripezie, passando incolume anche attraverso la caduta e poi la resurrezione del Cavaliere, sempre dando voce a quell’elettorato indistinto che vuole essere lasciato in pace a curare i propri affari, di qualsiasi genere, senza essere disturbato. La Casa delle Libertà (al plurale …!) descritta da Corrado Guzzanti: “Facciamo un po’ come ca**o ci pare…!”. Nel campo avverso invece si restava fedeli alla linea riformista e razionale, secondo la tradizione del centrosinistra storico: Romano Prodi, un democristiano DOC all’uopo investito dal demiurgo Massimo D’Alema, unificò nell’Ulivo tutto il centrosinistra riformista e inaspettatamente vinse nel 1998. Governò egregiamente fino a quando D’Alema capì che l’esperimento funzionava meglio del previsto e che lui con la sinistra tradizionale (la futura Ditta) avrebbero perso l’egemonia. Provvide, armando la mano di Bertinotti, e ascese alla Presidenza con l’aiuto nientemeno che di Francesco Cossiga, che odiava Berlusconi. Seguì Giuliano Amato, dopo che D’Alema era stato divorato dai suoi figli (un dio Crono al contrario), secondo le migliori tradizioni della sinistra storica. Finì la prima stagione riformista, che lasciava in dote l’euro, una finanza risanata (grazie Ciampi!), ma anche la disgraziata riforma del Titolo V della Costituzione, approvata da D’Alema per blandire il rampante secessionismo populista di Umberto Bossi. E già, perché il populismo, vecchia talpa, scavava sul fondo, corrodeva gli animi e si propagava anche a sinistra (la cui mai doma anima massimalista era ben pronta da decenni …). Seguirono gli anni del berlusconismo trionfante, un populismo ormai maturo che aveva inglobato tutto il centrodestra, senza alcuna resistenza. Ma i populisti sanno promettere, non sanno mantenere, per cui allo scadere della legislatura nel 2006, solo il congenito autolesionismo del centrosinistra impedì di ottenere una vittoria schiacciante e risolutiva. Il riformismo inquinato e meticciato nell’Unione vinse di poco e governò per poco. Tornò presto, e al galoppo, la seconda stagione del populismo berlusconiano, ci si sbarazzò di Fini, che faceva ombra al Capo, e si proseguì col vento in poppa. Berlusconi “pantocratore”, ad Onna dopo il terremoto, indossò il fazzoletto rosso dei “comunisti”, sferrando l’attacco populista anche all’altra metà del mondo. Nel frattempo il virus del populismo, in assenza di efficaci anticorpi a sinistra, aggrediva tutta la società: nel 2007 la pubblicazione del libro “La Casta” di Stella e Rizzo segnò l’adesione del serioso mondo meneghino del Corriere alla nuova moda dell’antipolitica, dell’antisistema, giusto mentre un comico genovese in declino, con l’aiuto di un visionario millenarista, aggregava consensi, urlando vaffanculo dal canotto, a destra e a manca, ma soprattutto a manca, perché a destra erano già ben serviti … Il fatto è che i riformisti stavano finalmente, con molto ritardo e tra indicibili difficoltà, attrezzandosi a resistere, fondando quel Partito Democratico col quale Walter Veltroni intendeva interpretare la migliore tradizione riformista italiana. Il discorso del Lingotto nel luglio 2007 è ancora oggi una pietra miliare … Ma era ancora e sempre più il tempo del populismo ed ora l’obbiettivo da colpire diventava il PD che, alla prima uscita elettorale (2008), aveva preso il 35%, perdendo sì, ma con molto onore e ottime prospettive. La nascita del M5S mirava al cuore del centrosinistra, cercando (e riuscendoci perfettamente) di risvegliare le mai sopite anime massimaliste, anticapitaliste, antioccidentali, anti-tutto, populiste insomma, quelle anime che avrebbero di lì a poco distrutto anche il Labour vincente di Tony Blair. Il PD, almeno in parte, resisteva strenuamente, ma l’attacco era concentrico e spietato, e contava su consistenti appoggi interni, su quinte e seste colonne che erano spaventate dal peso delle responsabilità che la visione governista veltroniana proponeva e rimpiangevano la vecchia cara opposizione protestataria. Veltroni era stato da tempo sacrificato e la partita sarebbe finita presto e male, se non fosse piombato sulla scena un ragazzotto toscano neppure quarantenne, presuntuoso e baldanzoso come pochi, che si mise in testa di riformulare il riformismo in salsa più moderna. Gli dettero (e ancora gli danno) del populista en travesti, ma lui le riforme le fece sul serio (promise e mantenne) in quasi tre anni di governo “matto e disperatissimo”, durante i quali il populismo da destra e da sinistra fece di tutto per aggredire quel miracoloso 41% delle europee del 2014, che dimostrava che contro il populismo si poteva lottare e pure vincere. Si armò la trappola del referendum, colpevolmente sottovalutata, che funzionò per bene, smantellando il Governo del pericoloso alieno intruso. Ormai il populismo trionfava anche a sinistra e così partì la crociata volta a derenzizzare con ogni mezzo, inclusa la via giudiziaria, il PD (fu inventato un verbo apposito …), crociata conclusa in gloria con le ultime primarie, strumento poi tosto abolito, nelle quali l’ala riformista del PD cedette di schianto, non vedendo arrivare chi l’avrebbe definitivamente annichilita. Ancora una volta il PD era stato scalato dall’esterno, ma stavolta dai suoi eterni nemici populisti. Stretta nella morsa del M5S, morto e risorto grazie alla spregiudicatezza del camaleonte Conte ed alla dabbenaggine di alcuni esponenti della sedicente sinistra, e della nuova Segreteria movimentista, il riformismo PD è spirato, reso inutile ed impotente nei confronti di un gruppo dirigente che sembra uscito da un'improbabile occupazione studentesca del Sessantotto. E così il populismo, che aveva da tempo conquistato la destra, ha conquistato anche la sinistra e si appresta a mantenere la sua egemonia per chissà quanto tempo, accumulando danni morali e materiali, un debito pubblico imponente e soprattutto generando sfiducia e disperazione nell’elettorato più sano. In questa distopica situazione ora il populismo di destra fa finta di governare, non essendone capace, e quello di sinistra fa finta di fare opposizione, non avendone gli strumenti politici adatti alla bisogna. Sembrerebbe un disastro epocale, definitivo, roba da mettersi ad urlare come Liza Minnelli nel metrò in Cabaret, ma la politica come la Storia fortunatamente non ha mai fine e c’è sempre lo spazio per risorgere. Ci vorrà pazienza e lucidità (merce rara anche dalle nostre parti, quelle del riformismo ancora resistente), ma le occasioni non mancheranno, anche a breve termine. Bisogna farsi trovare pronti: i treni passano ad alta velocità e noi non abbiamo un Lollobrigida pronto a fermarli a comando.
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