Una società organizzata, qualunque sia la sua forma istituzionale, democratica o meno, non può fare a meno di chi amministra la giustizia. Perché c’è gente che commette reati e va scoperta, processata ed eventualmente condannata alla pena conseguente (giustizia penale) e c’è gente che litiga per qualcosa e ci vuole qualcuno che dirime le controversie, dispensando torti e ragioni (giustizia civile). Il compito è essenziale per la vita di ogni organizzazione sociale, che altrimenti sarebbe in balìa della sopraffazione dei più forti, dell’aleatorietà dei giudizi di ognuno. dell’arbitrio dei potenti. Ovviamente in una società illiberale è tutto semplice perché quello che conta è il volere dell’autocrate di turno, che dà indirizzi, detta regole, nomina giudici e investigatori, arrogandosi il diritto di giudicare e decidere per tutti. In una società democratica (uno Stato di diritto) le cose sono invece e per fortuna un po’ più complesse: si richiede che la giustizia sia amministrata nel rispetto assoluto dei diritti di tutti, verso tutti in egual misura (“la legge è uguale per tutti”), in applicazione di leggi approvate dalla maggioranza negli organismi preposti, nel rispetto di norme fondamentali come le Costituzioni. Si capisce come fare il magistrato sia davvero un mestieraccio: le responsabilità sono tante, l’impatto delle decisioni sui cittadini è elevatissimo, il rischio di rovinare la vita a gente semmai innocente è tutt’altro che trascurabile, l’esposizione a vendette e ritorsioni può essere, come ben sappiamo, mortale, infine le leggi da applicare sovente non sono affatto chiare e quindi bisogna gestire una dose massiccia di arbitrarietà, che non facilità il compito. Ciò detto, nessuno fa il magistrato per forza e chi lo fa o ambisce a farlo, si suppone che conosca bene tutte queste caratteristiche della professione. Nessuno fa il chirurgo se non sopporta la vista del sangue o il pilota d’aerei se soffre di vertigini o il tutore dell’ordine se aborre il ricorso alla violenza, anche quando è indispensabile. In alcuni Paesi si accede alla carriera tramite elezione, a volte per nomina, più spesso per concorso pubblico. È sempre e comunque prevista una selezione accurata. Oggi qui da noi si dibatte, con la solita (impropria) foga ideologica, sull’opportunità di includere test psico-attitudinali tra le prove di selezione, per verificare (così si dice) l’equilibrio del candidato. In teoria, non ci dovrebbe essere nulla di scandaloso in questo, viste le prerogative di un magistrato: test simili sono da sempre previsti per moltissime professioni “delicate”, dal pilota al poliziotto, e c’è da dire che non sempre garantiscono un risultato affidabile (come non ricordare lo squilibrato pilota della Lufthansa che schiantò deliberatamente un aereo con 150 passeggeri sulle Alpi?). Purtroppo in Italia il rapporto tra magistratura e politica è da tempo, a dir poco, per niente sano: da oltre trent’anni è un succedersi di reciproche travalicazioni, di continue invasioni di campo, di interferenze, di commistioni di carriere, di tentativi di regolamento di conti, cose che nulla avrebbero a che fare con il corretto ed istituzionale gioco delle parti, chiaramente previsto dalla Costituzione. Però la debolezza della politica, unita ad una sostanziale autoreferenzialità della magistratura, ha reso i rapporti molto difficili e soprattutto ha reso molto arduo qualsiasi tentativo di attuare quelle riforme che tutti sanno essere indispensabili da decenni. Da parte delle associazioni di magistrati si obbietta che il test sarebbe da una parte del tutto inutile, dall’altra lesivo della figura e dell’autorità del giudice; trascurano però che oggi in pratica non è previsto alcun sistema di valutazione del magistrato in base alle prestazioni offerte, cosa invece del tutto normale, logica e naturale in qualsiasi organizzazione umana. Qualsiasi, purché non si tratti di quelle dove, per antonomasia o per una sorte di “diritto divino”, sono sempre tutti bravissimi ed insindacabili: una è la scuola, un’altra è la magistratura, dove la carriera o è automatica o è legata alle logiche di corrente all’interno dell’organo di autogoverno (CSM). Tutti sanno benissimo che è esattamente così, ma il senso comune, quello che sempre nasconde il buon senso, sostiene che appunto va bene così. E quindi si litiga su test che non si sa come verranno fatti, se verranno fatti davvero e che, se eseguiti all’ingresso in carriera, nulla garantiscono su quello che avverrà nei quarant’anni successivi alla selezione. È palesemente tutta fuffa, tutta ammuina, solo polverone mediatico sollevato per coprire le numerose magagne di un sistema che fa acqua da tutte le parti e sul quale non si vuole intervenire in modo efficace per non toccare privilegi, prerogative, interessi ben consolidati. Nel discorso di insediamento del 3 febbraio 2022 il Presidente Mattarella ebbe a dire: “È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio Superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la Magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’Ordine giudiziario.” E subito dopo: “I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia, e non diffidenza, verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone.” Chiaro, no? In realtà, nessuno vuole chiedersi cosa sarebbe davvero essenziale verificare in una persona che si appresta, o che sta già facendo, il mestiere di magistrato. A mio parere, solo una cosa sarebbe indispensabile certificare: che la persona in questione dia al proprio mestiere il valore tecnico di chi usa strumenti definiti da altri (le leggi le fa la politica, la magistratura le interpreta, ove necessario, e le applica), senza arrogarsi altro diritto. Detto in altri termini, il test dovrebbe certificare che il magistrato, inquirente o giudicante che sia, non attribuisca al proprio ruolo alcuna valenza morale. Non è infatti compito di un giudice raddrizzare “il legno storto dell’umanità”, come diceva Kant, né ergersi a moralizzatore o fustigatore dei costumi. Il giudice deve essere un tecnico che usa strumenti dati in modo responsabile e quasi asettico, ben conscio che sta disponendo della vita, della reputazione, delle sostanze, della libertà di cittadini che per definizione restano innocenti fino alla condanna definitiva. Insomma, non si diventa “giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male”, come cantava De André. Questa “disposizione d’animo” dovrebbe essere verificata all’ingresso in carriera e, diciamo, ogni tre anni di servizio, unitamente all’adozione di un rigoroso sistema di valutazione delle prestazioni, che permetta di selezionare i migliori e gestire le carriere. Nessuno dovrebbe sentirsi messo in discussione o delegittimato; anzi, per primo il magistrato stesso dovrebbe sentirsi rassicurato circa il suo equilibrio e la sua efficienza. Poi resterebbero intatti gli altri mille problemi della giustizia (separazione delle carriere, lentezza dei processi, obbligatorietà dell’azione penale, informatizzazione delle procedure, riforma delle pene, distacchi ministeriali, …) ma, senza una garanzia sul materiale umano a disposizione, procedere diventa impossibile. E infatti, …
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