Nei lunghissimi anni di forzata opposizione ai governi centrati sulla Democrazia Cristiana, ovvero gli anni del fattore K e della conventio ad excludendum, il Partito Comunista Italiano sviluppò una notevole capacità di sfruttamento delle possibilità “interstiziali” di gestione del potere. Voleva dire infiltrare (favorire l’inserimento di …) persone di “area” dovunque fosse possibile (amministrazioni, telecomunicazioni, giornali, burocrazia, magistratura) per esercitare quel po’ di influenza e di potere che la situazione permetteva. Funzionò benone per molti anni. Nel 1970 la DC concesse la legge applicativa dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione del 1948 e per la prima volta in quell’anno si votò per eleggere gli organi di governo delle Regioni. Questo significò per il PCI accedere direttamente, e finalmente, al governo, almeno nelle Regioni tradizionalmente “rosse” del Centro Italia, laddove Il PCI rappresentava, e rappresentò a lungo, una larga maggioranza degli elettori. Si venne a creare una situazione a suo modo stabile: il PCI continuava ad essere fieramente “comunista”, seppure staccandosi molto gradualmente dall’ideologia ortodossa, a prospettare improbabili cambiamenti di sistema (l’eurocomunismo), a coltivare un modello immaginario di “comunismo democratico”, rappresentando tutta, o quasi tutta, l’area degli scontenti, degli ultimi, degli svantaggiati, area che costituiva una comunque solida minoranza e che trovava nel PCI il luogo del suo riconoscimento. Nel contempo il Partito influiva sullo sviluppo civile del Paese, favorendo (con molta prudenza) riforme anche molto importanti e governava anche nelle grandi città, che dalla metà degli anni Settanta cominciarono a rivolgersi ad un PCI che provava a rimanere in sintonia con i tempi che cambiavano, pur sempre formalmente fedele ai suoi dogmi, a partire dall’aggettivo “comunista”, ormai senza alcun senso politico. Il PCI promuoveva alcuni diritti civili ma ostacolava la televisione a colori, accettava l’ombrello della NATO ma si opponeva allo sviluppo della comunità europea, era in “cinghia di trasmissione” col sindacato ma si asteneva sullo Statuto dei Lavoratori, … Arrivò così la stagione del compromesso storico e del primo tentativo concreto di fare un passo avanti verso la normalizzazione dei rapporti istituzionali in una democrazia compiuta. Il tentativo si consumò con l’assassinio di Aldo Moro; dal 1979 in poi il PCI fu risospinto (in realtà si risospinse largamente da solo) nell’area antagonista, minoritaria, fortemente identitaria, della sinistra storica, mentre il Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi approfittava dell’isolamento del PCI per entrare stabilmente nell’area del governo nazionale, rappresentando con forza la spinta riformista della borghesia produttiva più illuminata. Sto brutalmente semplificando, ma voglio arrivare subito al punto. Il PCI continuò a governare dove poteva, ovvero nelle amministrazioni locali, molto spesso con quel PSI col quale a Roma litigava, quasi sempre con una classe dirigente molto capace ed innovativa. La sua linea nazionale però non si staccò, almeno fino alla svolta della Bolognina nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, da quella tradizionalmente “di sinistra”, in fiera opposizione al pentapartito imperante anche in nome della “questione morale”. Negli anni Novanta, lo sconvolgimento provocato da Tangentopoli costrinse il vecchio PCI, ora diventato Partito Democratico della Sinistra a porsi seriamente il problema del Governo nazionale. Le elezioni del 1994 lo sorpresero impreparato, in mezzo ad un guado infinito tra la Storia del Novecento e l’era del nuovo millennio ormai alle porte; la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto si infranse contro la ben più consistente corazzata mediatica allestita da Silvio Berlusconi con Fininvest, Mediaset, Lega Nord e nostalgici di destra, tutti sdoganati in blocco. La storia degli ultimi trent’anni, dal 1994 in poi, è tutta segnata dallo scontro tra una destra litigiosa ma compatta sotto l’egida di Berlusconi ed una sinistra sempre pencolante tra i vecchi sogni antagonisti, sostanzialmente antioccidentali, internazionalisti, tardo-marxisti a volte perfino pauperisti, e un’idea di centrosinistra più moderno, tutto proteso verso il Governo, ansioso di mettere alla prova sul terreno nazionale le capacità sviluppate per anni nel buon Governo delle Regioni e delle città. Questo pencolamento della sinistra, irrisolto, dava sempre più corpo a due anime, presenti e latenti da lungo tempo: chi con nostalgia voleva rimanere legato agli schemi novecenteschi del Partito alfiere degli ultimi, di tutte le minoranze, con sogni di romantica rivoluzione, e chi progettava di accedere alle stanze del potere vero, quello nazionale, misurandosi con un programma di riforme. Di questa contrapposizione rimasero vittima i Governi di centro-sinistra ed i relativi tentativi di trasformare profondamente e definitivamente il mondo progressista e riformista. Sembrava quasi che mancasse l’ambizione a cambiare il mondo in modo progressivo, come se la vecchia idea rivoluzionaria fosse rimasta annidata nelle menti e nel coscienze di tutta una classe dirigente. Classe dirigente che nel contempo si adagiava nella gestione del sottogoverno locale, perpetrando quella capacità “interstiziale” coltivata a lungo nel dopoguerra. Eppure, doveva essere chiaro che non si trattava affatto di tradire gli ultimi, le minoranze, gli svantaggiati, ma semmai di dare loro uno sbocco costruttivo, tramite un’efficace azione riformatrice di Governo. Insomma, chi davvero vuole favorire gli ultimi, più che lisciare loro il pelo e consolarli, deve prendere i provvedimenti utili a migliorare la loro vita. E, se non si va al Governo, quei provvedimenti li si può al massimo reclamare in piazza, ma non attuarli, perché governano gli altri. Ma per andare al Governo bisogna diventare maggioranza, vincere elezioni, e non solo fare buoni risultati. E infine, per diventare maggioranza, ci si deve aprire, includere altri strati sociali, accettare anche compromessi, fare politica attiva, e non solo scaldarsi il cuore nelle Feste dell’Unità o nelle manifestazioni sindacali, peraltro sempre meno oceaniche e meno partecipate. Sembra banale, sembra l’ABC, ma purtroppo non lo è. E se compare un movimento populista che mira a quell’elettorato, non si può solo corrergli dietro, facendo a gara a chi è più populista: bisogna al contrario rivendicare orgogliosamente la volontà ferrea di riformare il Paese per migliorare le condizioni di vita di tutti, e in particolar modo degli ultimi e degli svantaggiati. Ma cosa sta facendo il Partito Democratico da qualche anno? Sta orgogliosamente recuperando quello spirito antagonista che purtroppo lo terrà fuori per anni dalla gestione del potere, che ormai ha perso anche a livello locale. Con grande gioia di una della peggiori destre del Continente e nessun vantaggio per quelli che invece pretenderebbe di tutelare. Il PD di Veltroni, ma anche l’Ulivo di Prodi, per non parlare del solito Renzi, nascevano per governare: era la famosa “vocazione maggioritaria”, mai accettata da quella parte di Partito che, per pigrizia mentale e spesso pure per convenienza spicciola, rimase sempre fedele alla romantica idea dell’opposizione. Anni fa, al culmine di una accesissima (anche troppo) discussione con uno storico esponente della sinistra torinese, mi sentii apostrofare così: “Ma cos’è questa smania che avete voi di governare? Noi siamo fatti per l’opposizione: quello è il nostro posto …!” Papale papale. Nanni Moretti in Caro Diario, girando per una Roma deserta ad agosto sulla Vespa, si tormentava dicendosi: “Io non starò mai con la maggioranza …!”. Esprimeva, col suo sarcasmo feroce e spietato, il disagio di certa sinistra nel doversi mettere dalla parte di quelli che decidono, che si prendono le responsabilità, che cambiano il gioco imponendo nuovi schemi e non giocano solo “di rimessa”, come dicono quelli che sanno di calcio. Il dramma della sinistra schizofrenica, non solo in Italia (in Gran Bretagna è successa la stessa cosa), è tutto qui: nella incapacità di imporre gli schemi e nella paura di diventare sul serio classe dirigente, con le conseguenti, spesso pesantissime, responsabilità politiche e sociali. Comoda la vita di chi protesta dall’opposizione … Meloni ha sbraitato minchiate (scusate il francesismo …) per decenni dal comodo ricetto dell’opposizione. Ora sta facendo i conti con la dura realtà, con una classe dirigente che pure vale un centesimo della nostra. I nostri (pochi) Governi hanno sempre lasciato un segno forte, il suo per ora fa solo chiacchiere e propaganda senza costrutto, ma non ha un’alternativa credibile, pronta a sostituirlo. I nostri Governi non hanno mai resistito al peso soverchiante della zavorra che i nostalgici conservatori, anche un po’ meschini e bigotti, hanno rappresentato per decenni. La storia non è ancora finita …
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