Avvertenza: questo post è un po’ lungo. Chi si annoia può saltare al fondo … e poi tornare indietro … Sfidare la sorte è sempre pericoloso. E qui da noi l’abbiamo sfidata a lungo. Vediamo. Dopo la fine della cosiddetta Prima Repubblica, quella bloccata dalla Guerra Fredda, col fattore K (ovvero l’esclusione dei comunisti dal potere centrale) che cristallizzava maggioranze ed opposizioni, infine travolta da Tangentopoli, il Presidente della Repubblica ha dovuto sempre più assumere funzioni di supplenza di una classe politica fortemente screditata, tramortita, semismantellata dal micidiale uno-due che la Storia le aveva riservato: la caduta del Muro e la conseguente caduta dei partiti novecenteschi. Che si tratti di Seconda Repubblica o meno (la disputa non mi appassiona), dal 1992 in poi è cambiato tutto. Anche, e forse soprattutto, la funzione del Presidente. Un breve ripasso. Chiusa la tumultuosa avventura del “picconatore” Francesco Cossiga, costretto alle dimissioni il 28 aprile 1992, il Parlamento dovette eleggerne il successore nei drammatici giorni della strage di Capaci: l’attacco di inaudita violenza allo Stato mise fine bruscamente a quindici inconcludenti scrutini; al sedicesimo fu eletto, con ampia maggioranza bipartisan, un uomo di specchiata fede democratica come Oscar Luigi Scalfaro, in quel momento Presidente della Camera. Un navigatissimo ed affidabile democristiano, che gestì un complesso settennato, fino al 1999. Sotto l’attacco mafioso (e chissà se solo mafioso …) e con la tempesta di Tangentopoli che infuriava, incaricò il tecnico Carlo Azelio Ciampi, Governatore di Bankitalia, di portare il Paese ad elezioni anticipate, inaugurando nei fatti il nuovo ruolo di supplenza della Presidenza, e nel 1994 gli toccò battezzare l’arrivo sulla scena di Silvio Berlusconi, una persona da lui culturalmente ed umanamente distante più del pianeta Marte, che trattò sempre con distacco ed una certa rigidezza, che dal Cavaliere non gli fu mai perdonata. Scalfaro subì attacchi oscuri (“Io non ci sto …!”), ma non diede a Berlusconi le elezioni anticipate che chiedeva, quando la rottura del suo accordo con Bossi portò alla caduta del Governo. Varò invece il Governo Dini, un altro tecnico proveniente da Bankitalia, che traghettò il Paese fino alle elezioni del 1996, vinte inaspettatamente dall’Ulivo di Romano Prodi. Allo scadere del settennato, nel 1999, il centrosinistra al Governo promosse l’elezione, avvenuta ancora con ampia maggioranza, di Carlo Azelio Ciampi, un solido democratico con trascorsi nel Partito d’Azione, ma ora lontano dai partiti, ex-Governatore di Bankitalia, ex-Presidente del Consiglio, ex-Ministro del Tesoro di Prodi e D’Alema, artefice principale dell’ingresso dell’Italia nell’Euro. Un gigante assoluto, insomma. Ciampi gestì il ritorno trionfale di Berlusconi nel 2001 e sostenne forti momenti di attrito col suo Governo, dalle dimissioni del Ministro Ruggiero, alle leggi Gasparri sulle tv e Castelli sulla Giustizia, sino alla partecipazione italiana alla seconda guerra del Golfo, che egli voleva fosse inserita in un quadro di cooperazione con l’ONU o con la NATO. La fine del suo settennato, nel maggio 2006, coincise con l’effimera vittoria della variegata Unione di Prodi, vittoria che comunque permise di promuovere l’elezione, questa volta con una ristretta maggioranza, di Giorgio Napolitano, ovvero un autentico, seppur eccentrico, ex-comunista, che però era sempre stato riformista, atlantista, aperto al dialogo coi socialisti, capo di quelli che si chiamavano “miglioristi”. A Napolitano toccò gestire, nell’estate del 2011, il tramonto del berlusconismo, la cui rovinosa caduta fu ampiamente promossa dalle alte sfere europee, giustamente preoccupate dalla mancanza di una chiara gestione dell’economia in un grande Paese fortemente indebitato, ma che non voleva prendere i provvedimenti necessari per tranquillizzare i mercati, che infatti passarono all’attacco, portando lo spread oltre 500 punti, alla soglia del default finanziario. Quell’estate, era agosto, Trichet e Draghi, il primo Presidente della BCE e il secondo designato a succedergli, scrissero una lettera nella quale, papale papale, si indicavano le cose da fare, che né Berlusconi né Tremonti avevano alcuna voglia di fare. Seguirono gli umilianti sorrisetti di Sarkozy e Merkel a Cannes, mentre saggiamente il Presidente preparava una exit strategy ragionevole. La destra lo accusò di tramare nell’ombra con Mario Monti, ma in realtà il vecchio migliorista faceva quello che serviva al Paese: restituirgli credibilità internazionale. A fine anno, coi mercati impazziti e lo spread a 575, nominò Monti Senatore a vita e, subito dopo le ormai inevitabili dimissioni di Berlusconi, lo incaricò di formare l’ennesimo Governo tecnico, quello della legge Fornero e delle sue lacrime in diretta tv. Monti fece il suo “sporco” lavoro di risanamento e portò il Paese alle elezioni del febbraio 2013, quelle che il centrosinistra avrebbe dovuto vincere a mani basse ma che, grazie alla “raffinata” strategia elettorale di Bersani, riuscì a malapena a “non perdere” (parole sue …). Seguirono l’indimenticabile e surreale streaming di Bersani con i cinquestelle nonché, essendo ormai arrivata la scadenza del settennato di Napolitano, il terribile pasticcio che portò alla bocciatura di Prodi (i famosi 101 …), che il solito Bersani aveva gettato improvvidamente nella mischia. Finì che una classe politica vergognosamente incapace supplicò Napolitano di restare al suo posto per un secondo mandato, cosa fino ad allora mai avvenuta. Napolitano accettò con un discorso di insediamento di una durezza mai vista, nel quale sferzò il Parlamento “avvitato nell’inconcludenza e nell’impotenza”: l’uomo abituato al dialogo ed al compromesso si dimostrò capace di una franchezza addirittura spietata. A capo chino, tutti lo applaudirono e lo votarono … salvo continuare come prima. Seguì il breve ed inconcludente Governo Letta, che non riuscì a “stare sereno” e fu sostituito da Matteo Renzi a febbraio 2014. Napolitano gli diede l’incarico, forse di malavoglia, mettendo comunque paletti precisi al suo Governo (no a Gratteri Ministro della Giustizia …). Il vecchio Presidente aveva promesso di dimettersi alla scadenza del semestre di presidenza europeo e così fece a gennaio 2015, senza aspettare che la riforma costituzionale figlia del Patto del Nazareno, in corso di approvazione in Parlamento con appoggio fino ad allora bipartisan, facesse tutto il suo corso. Dimettendosi, aprì la successione che, manco a dirlo, fu dirompente. Berlusconi, d’accordo con D’Alema, cercò di imporre a Renzi il nome di Giuliano Amato. Renzi ovviamente non accettò l’imposizione, rilanciando con la proposta, oggettivamente fortissima ed incontestabile, di Sergio Mattarella, che infatti fu eletto con una maggioranza di ben due terzi dei votanti. Lo scontro violento non fu senza conseguenze: Berlusconi, piccato e vendicativo, ritirò l’appoggio alla riforma, che proseguì il suo corso con la sola maggioranza, aprendo la strada al referendum del 2016, che finì come finì (anche D’Alema e i suoi perfezionarono la loro vendetta). Fuori Renzi sconfitto, Mattarella incaricò Gentiloni, che portò il Paese alle elezioni del 2018, dove un PD sempre più dilaniato da lotte interne, pur con Renzi rieletto Segretario a furor di popolo (70%), consentì l’esplosione dei consensi del M5S. Nel corso delle conseguenti inconcludenti discussioni per la formazione di un qualsiasi Governo, Mattarella fu persino minacciato di impeachment da un furibondo Di Maio per avere negato il Ministero dell’Economia ad un dichiarato no-euro come Paolo Savona. Era il classico “ruggito del coniglio”: Mattarella rispose chiamando Cottarelli-col-trolley, un altro tecnico, a fare da spauracchio. Funzionò. Conte e Salvini avviarono il Governo giallo-verde, naufragato dopo un anno o poco più sulle spiagge roventi del Papeete, ad opera di un delirante Salvini con il mojito, in cerca dei pieni poteri. Non li trovò, perché Renzi, malgrado gli accordi presi da Salvini col Segretario Zingaretti per immediate elezioni anticipate, promosse un governo con Conte Premier, appoggiato dal centrosinistra. Mattarella prese atto dell’ennesimo cambio di maggioranza: tutto era, formalmente e sostanzialmente, ben dentro i dettami della Costituzione. Arriviamo così alla pandemia ed all’operazione parlamentare, ancora una volta promossa da Renzi, che portò alla rimozione (tra il 2020 ed il 2021) dell’inadeguato ma potentissimo duo Conte-Casalino con Mario Draghi, un altro gigante cui Mattarella fu ben contento di affidare il Governo in un momento di particolare delicatezza, dovuto all’incrocio tra la pandemia, le vaccinazioni ed il PNRR, varato nel frattempo dalla UE. A gennaio 2022 il mandato di Mattarella va a scadenza naturale e la successione si annuncia subito molto molto problematica: è storia recente. Di nuovo incapace di trovare soluzioni condivise, la classe politica, dopo vari pasticci, implora Mattarella di accettare un secondo mandato, come Napolitano. La carica di Presidente sta lentamente diventando un incarico “a vita”. Anche Mattarella è quindi costretto a restare, anche se non proprio di buon grado. Lo fa pesare meno di Napolitano, ma di nuovo il Presidente della Repubblica torna al centro di tutto … Infatti quando, pochi mesi dopo, Conte con Salvini, vecchio amore, e Berlusconi, tolgono la fiducia a Draghi, risultato troppo poco corrivo col populismo imperante, Mattarella fischia la fine e manda tutti alle elezioni anticipate a settembre 2022. Segue Governo Meloni … Chi ha avuto la pazienza di seguire fin qui questo Bignami della politica italiana avrà certamente notato come nel tempo, sempre più, il Presidente della Repubblica sia venuto ad assumere un ruolo forse non del tutto congruente con le intenzioni dei Padri Costituenti: altro che figura di garanzia, sostanzialmente notarile e di rappresentanza, come nella Prima Repubblica! Il Presidente è diventato una vera e propria guida, un perno della politica nazionale, disponendo in realtà di poteri molto ampi, se vuole usarli, o se è costretto ad usarli. Poteri “a fisarmonica”, s’è detto. La Storia degli ultimi trent’anni ce lo dimostra senza ombra di dubbio: tutti i Presidenti, da Scalfaro a Mattarella, hanno segnato profondamente con le loro decisioni gli eventi politici del nostro Paese. E meno male! La sorte, solo la sorte, come dimostra il Bignami che vi ho propinato, ha voluto che questo inedito e non scontato protagonismo dei Presidenti sia avvenuto sempre con Presidenti di sicura fede democratica, affidabili custodi dei valori fondanti della Costituzione. Poteva non andare così. La destra ha governato a lungo in Italia, ma la sorte, solo la sorte (a volte con un aiutino …, Salvini ci stava provando nel 2019), non ha mai consentito l’elezione di un sovranista, di un populista, addirittura di un nostalgico. Che decisioni avrebbero preso costoro al Quirinale? Chi e cosa avrebbe guidato la loro mano? Ricordiamo che tutto è sempre avvenuto all’interno della Costituzione del 1948, quella che nessuno finora è riuscito a cambiare (in meglio), anche se nel corso degli anni ha dovuto subire violenze. Dalla modifica affrettata ed inopinata del Titolo V, che ha stravolto le relazioni con le Regioni, all’inutile, anzi dannosa, diminuzione del numero dei parlamentari, sfregio del quale porta la responsabilità il populismo feroce dei cinquestelle, con la complicità imbelle di un PD senza carattere sulle cose importanti. Ero poco più che un ragazzo ai tempi della Commissione Bozzi (con le zeta, non le esse) per la Riforma, a metà degli anni Ottanta. Ne seguirono millanta, tutte naufragate su veti incrociati, incompatibilità contingenti, calcoli meschini e senza prospettiva. Adesso è di nuovo ora, con la proposta, davvero imbarazzante per pochezza ed imprecisione, di questo Governo. Tutti ne parlano per non parlare dei problemi urgenti del Paese, e qualcosa finirà pur in Parlamento e chissà cosa ne uscirà. Per Meloni è una bandiera, e sappiamo che la Signora adora le bandiere … E ancora una volta si alzano barricate: SI contro NO. Tertium non datur. E invece è chiarissimo che bisognerebbe aprire un confronto serio sulle migliorie da apportare a quella Carta, vecchia ormai di quasi ottant’anni. Ma chi lo fa? E come? In teoria gli obbiettivi generali sarebbero forse anche condivisi: una maggiore governabilità, la costanza delle maggioranze, i poteri del Premier, il monocameralismo, un nuovo Titolo V, una giustizia più moderna ed efficace, il ruolo di partiti e sindacati, c’è tanto da migliorare. Per non parlare della legge elettorale che è fuori dalla Carta, ma ne è comunque l’indispensabile complemento. Premierato, presidenzialismo, semi-presidenzialismo, sindaco d’Italia: finora sono slogan, non proposte. Io non mi azzardo ad adombrare soluzioni: è roba da specialisti veri, non da blogger orecchianti, o da curve contrapposte sui social. E non è neppure materia per referendum, malgrado l’art. 138 lo preveda perché, parliamoci chiaro, la quasi totalità dei cittadini non possiede i mezzi necessari per valutare seriamente una Costituzione più o meno nuova: potrebbe al massimo esprimersi sui principi generali, sui concetti di fondo, ma le disposizioni sono roba da specialisti veri. E allora che facciamo? Continuiamo a parlarci addosso senza concludere nulla? A declamare slogan più o meno efficaci? O aspettiamo colpi di mano, contro cui alzare le barricate, col rischio che le barricate, mai troppo solide, cadano in frantumi? Dei partiti davvero responsabili, destra, sinistra, centro, dovrebbero smetterla di issare bandierine ed avviare un progetto di riforma vero, condiviso. Ci si provò anni fa, ma finì come sappiamo. Io credo che ora servirebbe deporre le armi ed affidarsi ad una trentina di esperti veri, gente che sa di cosa parla e soprattutto che si dimentichi di essere stata nominata in quel posto da qualcuno cui rendere conto, gente che per sei mesi elabori proposte dettagliate, complete e consistenti, e le porti in Parlamento per una approvazione bipartisan, evitando sanguinosi referendum. Qui non si decide tra Repubblica o Monarchia, su cui tutti si fanno un’idea. E non c’è ancora domani. Al mondo praticamente non esistono due sistemi costituzionali (democratici) uguali, solo le dittature o le democrature sono tutte uguali. Vuol dire che l’ottimo non esiste. Per questo servirebbe pragmatismo e competenza, per cercare il meglio possibile nelle condizioni date, con generosità e senso della prospettiva. È troppo? È irrealistico? È ingenuo? Può darsi. Continuiamo allora a confidare nella sorte … il famoso Stellone d’Italia.
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