Quelli che sanno vivere dicono che quando si perde, si impara. È certamente vero, ma questo non vuole dire che l’apprendimento non sia doloroso, spesso molto doloroso. Soprattutto quando si perde per un soffio, e in modo inaspettato. Guardando i risultati elettorali dello scorso weekend, proprio non riesco a non starci male. Avevo dichiarato la mia convinta adesione al progetto di Stati Uniti d’Europa (SUE) e purtroppo quel progetto (per ora) è miseramente fallito. Un minuscolo 0,2% meno del necessario (circa 50.000 voti su un milione) è bastato per far sì che nessun candidato sarà eletto al Parlamento di Bruxelles e Strasburgo. C’erano in campo due distinti partiti, dal programma quasi uguale (SUE ed Azione), e lo scenario peggiore possibile si è avverato: nessuno dei due ha raggiunto il fatidico 4%, necessario per eleggere parlamentari: 1.666.000 voti totali buttati via … uno schiaffo a tutti gli elettori che ci avevano creduto e sperato. Potevano essere sette, o otto. Saranno zero. Ovvio che, insieme in un’unica lista, il risultato sarebbe stato anche più alto della somma dei risultati ottenuti: insomma, si poteva arrivare ben sopra Fratoianni e Bonelli, allo stesso livello di Lega, Forza Italia e M5S. Un vero Terzo Polo, dopo Meloni e Schlein. Così non è stato. Ora è inutile piangersi addosso: è meglio sforzarsi a pensare a come rimediare a questo terribile pasticcio. Le colpe sono agli atti, chiarissime, addirittura lampanti per chi vuole vederle, ma è assolutamente inutile insistere a recriminare sul passato. Tanto, indietro non si torna. Non mi stanco di ripetere che c’è in Italia (e non solo) un consistente spazio elettorale per i riformisti, distinto e distante da sovranisti e populisti oggi imperanti: il problema è occuparlo con una formazione politica credibile ed appetibile, una formazione che oggi NON ESISTE, ma che bisogna costruire al più presto. Il PD di Elly Schlein ha avuto una buona affermazione elettorale, grazie soprattutto ai candidati più riformisti, come Giorgio Gori, Irene Tinagli, Pina Picierno, Antonio Decaro, Stefano Bonaccini, e tanti altri. Certamente però un Marco Tarquinio, bigottone antiabortista, antioccidentale e tanto pacifista da diventare filo-putiniano, come pure una Cecilia Strada, altra pacifista ad oltranza, esprimono tutt’altra identità del Partito. Come ho scritto più volte, nel PD convivono (con molte difficoltà) queste due anime, purtroppo inconciliabili: entrambe legittime, con solidi riferimenti storici, ma finora inconciliabili. Se prevale la prima, quella riformista e vocata a governare, la seconda rema contro e prima o poi rompe tutto (è già successo tante volte …!). Se prevale la seconda, il Partito si marginalizza, diventa orgogliosamente protestatario e movimentista, ricompatta un po’ di militanti storici, “dice qualcosa di sinistra”, ma il Governo lo vede con il cannocchiale, condannandosi alla “vocazione minoritaria”. Questa ambiguità congenita inoltre lascia spazio ad altre realtà simili, come la vittoriosa Alleanza Verdi Sinistra dei furbi Fratoianni e Bonelli che, dopo la cooptazione del bracciante ricco Sumahoro, hanno (cinicamente) approfittato della povera Ilaria Salis, vessata dal “democratore” Orbán in Ungheria, raccogliendo molti voti in un’area politica a cui di governare non importa nulla, bastandogli rappresentare la protesta ed il disagio di alcune minoranze. L’analisi dei flussi dice che hanno portato via voti ad un M5S, spento e senza idee, che comunque continua a pescare nella stessa area: minoranze su minoranze, che non faranno mai maggioranze. Dato quindi per scontato che M5S e AVS coprono quell’area lì, cosa vuole fare il PD? Correre loro dietro in una gara di populismo, o provare a ricostruire un’area riformista, che punti a scalzare dal Governo quanto prima questa destra impresentabile e pasticciona? Schlein pensa di poter tenere tutti dentro e finora è stata brava a riuscirci: ma per quanto tempo ancora? Cosa deciderà il PD su problemi dirimenti come le armi all’Ucraina, l’appoggio ad Israele, il referendum di Landini sul Jobs Act, le riforme istituzionali, che prima o poi bisognerà affrontare seriamente? Per quanto tempo riuscirà a mantenere questa ambiguità, soprattutto a fronte di una leader come Meloni che appare, pur con tanta teatralità, determinata e inarrestabile come un treno? Sono domande a cui è difficile dare risposta. Aggiungo che nelle macerie dell’ex-Terzo Polo e dei suoi sfortunati sviluppi bisognerà pur trovare un bandolo per ricostruire. Resta intatta l’esigenza di quel Partito-che-non-c’è e che dovrà esserci, prima o poi, se non vogliamo tenerci Meloni per un ventennio, come il suo antico ispiratore. Resta la necessità di creare una forza riformista talmente forte e trainante da disinnescare il populismo di una sinistra che altrimenti peserà come una zavorra sul progetto riformatore, impedendogli di diventare forza di Governo. Chi, per storia o per strategia, e forse anche per cultura, non è interessato a governare, cosa che inevitabilmente comporta mediazioni e compromessi, dovrebbe almeno non ostacolare la crescita di una proposta alternativa alla destra. Sono decenni che le (poche) esperienze di governo del centrosinistra vengono sistematicamente abbattute dall’interno. Sarebbe ora di smetterla e pensare invece al benessere del Paese intero, fondando una forza politica che riesca per davvero a fare le riforme necessarie a riportarci al centro dell’Europa. Chi vuole mettersi a capo di una simile avventura si faccia avanti. Astenersi perditempo.
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