Quando Matteo Renzi, più di una dozzina di anni fa, piombò nel quadro politico nazionale, lo fece cercando di scalare il Partito Democratico, ovvero il partito più grosso, certamente egemone, del centrosinistra. Il PD (in quel periodo era Segretario Pier Luigi Bersani e il berlusconismo volgeva ormai alla fine) non attraversava uno dei suoi momenti migliori: si era liberato in fretta del suo fondatore Walter Veltroni, reo di avere preso la miseria del 35% (!!) alla prima elezione utile, nel 2008 e, dopo qualche vicissitudine, si era affidato al tenutario della famosa Ditta, costituita da impenitenti ex-comunisti e solidi ex-democristiani. In quel frangente Renzi non propose di costruire un nuovo Partito, moderato e riformista, centrista, come si direbbe adesso. No, scalò il partito principale del centrosinistra. Neppure gli andò bene subito ma, complice la disastrosa gestione delle elezioni del 2013 da parte di Bersani, a fine di quell’anno riuscì a diventare Segretario, pressoché a furor di popolo. Diventò presto Presidente del Consiglio e governò per quasi tre anni, facendo una serie impressionante di riforme, sulle quali è inutile tornare (ognuno ne pensi ciò che vuole: io ne penso molto bene). Cadde e si dimise dopo il fatale referendum del 4 dicembre 2016, lasciò le cariche di Governo e di Partito, per poi essere richiamato, ancora a furor di popolo, alcuni mesi dopo ed essere rimesso al posto di Segretario con il 70% di preferenze alle primarie. La sua navigazione all’interno del Partito però si fece sempre più contrastata, soprattutto da parte della solita Ditta, che aveva palesemente boicottato il referendum, fino alla sconfitta elettorale del marzo 2018 quando, eletto Senatore, Renzi rimise di nuovo il suo incarico di Segretario di un Partito che, almeno in una sua corposa parte, lo osteggiava apertamente. Nell’estate del 2019, l’estate del Papeete e di Salvini in mutande che vaneggiava di pieni poteri e litigava con il suo sodale Giuseppe Conte, il Nostro favorì l’alleanza del PD con i 5stelle e la nascita del Conte 2, malgrado il Segretario Zingaretti avesse palesemente espresso la sua preferenza per elezioni anticipate, che comunque avrebbero incoronato il Re del Papeete. Subito dopo, constatata l’assenza di ogni agibilità politica nel PD, Renzi si decise ad uscire per fondare Italia Viva, un nuovo partito, centrista per necessità, per bilanciare un PD che tendeva inesorabilmente a spostarsi verso il massimalismo del M5S. Nacque allora l’opzione centrista, che da allora è stata perseguita con ogni mezzo, fino a poche settimane fa, anche attraverso una serie impressionante di fallimenti politici ed elettorali. Nel 2022 Letta mise espressamente il veto ad ogni ipotesi di alleanza elettorale con Italia Viva; nacque così, sempre per necessità, il Terzo Polo con Calenda leader, che si sfasciò alcuni mesi dopo; ci si riprovò con Bonino e i radicali attraverso la lista Stati Uniti d’Europa, lista da cui Calenda volle tenersi fuori, con il disastroso risultato di non raggiungere il quorum per eleggere deputati al Parlamento Europeo. Un altro fallimento epico (epic fail, dicono quelli che si sanno dare un tono). Questa è la storia: ognuno dia i giudizi di merito che vuole, ma i fatti nudi e crudi sono questi, inconfutabili. Due mesi fa la Segretaria del PD Elly Schlein ha espressamente fatto cadere ogni tipo di veto per la costruzione di una alleanza alternativa alla sciagurata destra che ci governa, su basi da concordare. Renzi, Presidente di Italia Viva eletto dal congresso a novembre 2023, ha ritenuto di cogliere l’opportunità, dichiarando la sua disponibilità a discutere contenuti e tempi di questa nuova alleanza, senza dismettere alcunché dei principi e valori riformista né i punti sostanziali del programma di IV. Insomma, si va a discutere di politica, non si va a Canossa, come qualcuno ha voluto poco opportunamente (e perfidamente) commentare. Il Presidente ha altresì accettato di mettere in discussione questa scelta all’interno del Partito, a partire dall’Assemblea Nazionale convocata per il prossimo 28 settembre. A chi gli ha fatto presente che una scelta di tale importanza (pur non essendo affatto estemporanea e fuori contesto) necessitava di un Congresso che la confermasse o meno, Renzi ha sempre risposto che lui stesso avrebbe proposto il Congresso all’Assemblea. Ha comunque illustrato in modo molto assertivo (è la sua cifra e non la scopriamo adesso) i motivi per i quali quella scelta sembrava ineludibile, essendo l’alternativa (insistere nella costruzione di un Terzo Polo, naufragato più volte) risultata del tutto improduttiva. Tutta la nostra storia politica dell’ultimo decennio e più si è sempre svolta nello sforzo costante di rendere attuabile una politica riformista. La via del riformismo, dovrebbe essere chiaro a tutti, passa attraverso il Governo del Paese. L’alternativa è un riformismo da accademia, che si esprime a meraviglia in convegni, libere associazioni, movimenti di opinione, ma che non incide sulla politica reale del Paese. La storia recente ha ampiamente dimostrato che una forza politica terza (il Terzo Polo) non riesce ad incidere ed inoltre non riesce neppure a stare insieme, squassata (come sempre) da incompatibilità più personali che politiche. Risulta quindi davvero sorprendente lo stupore, il disagio, persino il malessere, esternati a fronte di una scelta politica del tutto congruente con la storia del nostro movimento politico. Del tutto discutibile, come tutto in politica, ma assolutamente congruente. E così assistiamo all’ennesima frattura, consumata non sui contenuti di una politica riformista (su quelli non mi pare ci sia alcuna divergenza rilevante) ma su una presunta questione di metodo e, mi si lasci dire, di bon ton politico. È sufficiente? A me pare di no. “La rivoluzione non è un pranzo di gala …” diceva il vecchio Mao Zedong. Neppure il riformismo. Ieri Mario Draghi ha illustrato le sue linee guida per la rinascita dell’Unione Europea: dentro quelle 400 pagine c’è un distillato del riformismo europeo. Pensiamo di affrontare quelle sfide con alcuni gruppetti sparsi di onesti e battaglieri liberali, che però da decenni non cavano oggettivamente un ragno dal buco? È quella la risposta alla sfida che Mario Draghi lancia a tutti i riformisti europei? L’assemblea del 28 settembre dovrebbe dare risposte chiare e convincenti. Buon lavoro.
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