Un pezzo, ma non tutta la storia. Sto parlando del film di Andrea Segre “Berlinguer – La grande ambizione”. Elio Germano credibile e molto bravo, una ricostruzione fedele e non mitizzata degli avvenimenti, in due ore di bel cinema cinque anni della nostra storia patria, dal Cile (1973) a Moro (1978). Non oltre. Il film, io l’ho appena visto e lo consiglio sia a chi c’era e ricorda, sia a chi è venuto molto dopo e dei fatti e delle atmosfere di quegli anni non ha memoria diretta. Segre posiziona correttamente nel golpe cileno le radici del compromesso storico, ovvero il tentativo di smuovere una democrazia bloccata da trent’anni ed aprire (senza i rischi cileni) la strada del Governo ad un terzo dell’Italia, fino ad allora tenuto ai margini del potere in forza dei delicati equilibri internazionali. L’aspetto internazionale è peraltro brutalmente esplicitato dall’attentato subìto da Berlinguer in Bulgaria nel 1973 ad opera dei servizi segreti, segno inequivocabile di quanto poco fosse gradita oltrecortina l’evoluzione autonoma del Partito Comunista Italiano. Segue il progressivo e netto distacco di Berlinguer dal mondo sovietico, mentre matura l’intenzione di aprire un dialogo con la parte della Democrazia Cristiana più legata al solidarismo cattolico popolare e più distante dalla destra retriva e confessionale, che impegnava invano le sue forze nel referendum contro il divorzio del 1974. Berlinguer si muove nel palese scetticismo di dirigenti e militanti, ma sostenuto da una impetuosa avanzata elettorale, che culmina nel 34% alle politiche del 20 giugno 1976. Berlinguer ha intercettato ed è in sintonia con una gran parte della società civile, che ha voglia di cambiamento, è aperta al futuro, vuole uscire dalle rigidità del dopoguerra. Compie una serie di passi che sembrano irreversibili, come il palese distacco dall’Unione Sovietica, dove si è esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione, l’adesione convinta all’Alleanza Atlantica, l’accettazione della economia di mercato, la rinuncia ad anticaglie politiche come la dittatura del proletariato, … Insomma, Berlinguer assume tutta su di sé la responsabilità di una vera e profonda svolta politica, che il Partito asseconda più per disciplina che per convinzione, ma che il Paese apprezza e sostiene col voto, malgrado la violenta contestazione giovanile dei gruppi della sinistra extraparlamentare. Moro accetta, Andreotti subisce (sia per vanità che per convenienza), e così si arriva al 16 marzo 1978, quando la risposta di tutto il mondo conservatore e reazionario, di destra e di sinistra, interno ed internazionale, esplode nel rapimento e poi nell’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, infiltrate ed eterodirette forse da mezzo mondo. A quel punto crolla tutta la delicata costruzione dell’intesa, il compromesso storico all’improvviso diventa improponibile, Berlinguer resta senza interlocutori. E il film finisce lì. Ma non finisce la Storia … Un ventenne potrebbe chiedersi come sia proseguita la vicenda politica e soprattutto per quali strade si è arrivati fino ad oggi, cinquant’anni dopo, anni nei quali i pochi altri, sparuti tentativi di riforma sono sempre stati stroncati, in un modo o nell’altro. Perché quella voglia di riforme è rimasta sempre inattuata, perché chiunque abbia tentato, si chiamasse Craxi, Ciampi, Prodi, Renzi, Draghi, ha trovato un muro incrollabile, una resistenza al cambiamento che ha finito per alimentare tutte le peggiori avventure populiste e sovraniste, da Berlusconi a Bossi e Fini, e poi da Grillo a Salvini, e ora Meloni? Nel 1978 il Partito Comunista, ovvero Berlinguer in prima persona, aveva compiuto quasi tutti i passaggi per far sì che la democrazia bloccata italiana potesse evolvere verso un sistema aperto, pienamente occidentale, competitivo, moderno. Quasi tutti i passaggi, ma non quelli più altamente simbolici, come avrebbe dovuto essere l’abbandono del nome “comunista” e della bandiera con “falce e martello”. Non fu fatto: anzi … Il Partito che aveva raggiunto il 34% si ritirò in una velleitaria quanto infruttuosa “alternativa”, peraltro a stento richiamata in una sommaria frase nell’ultimo quadro del film, prima dei titoli di coda. Come fosse un’altra storia. Berlinguer si lasciò risucchiare nel gorgo di quella che molto dopo sarebbe diventata la Ditta, il Partito granitico e immutabile, rispolverò parole d’ordine vetuste e si lanciò in una battaglia antistorica, persa in partenza, per un’alternativa che non solo non arrivò mai, ma che costò milioni di voti e sonore disastrose sconfitte, come quella sindacale alla Fiat nel 1980 o quella nel referendum sulla scala mobile del 1983. Servirono oltre dieci anni, fino alla caduta del Muro nel 1989, perché Occhetto si decidesse a compiere quel grande passo. Ma era ormai tardi. La risposta al perché di tutto questo non si trova nel film (ed è un vero peccato …), anche se indirettamente la risposta l’aveva data lo stesso Berlinguer in una intervista del 1983 a Giovanni Minoli quando, alla domanda su cosa lo rendesse più fiero, aveva risposto candidamente: “Non aver mai abbandonato gli ideali della mia giovinezza”. Una risposta romantica, ingenua, perfino infantile, che però spiega bene come nella testa del militante comunista, quale egli restò fino alla morte sul palco di Padova a giugno 1984, il sogno rivoluzionario socialista non era mai scomparso e ogni atto, anche il più audace ed innovativo, era sempre stato proiettato in quella direzione. Berlinguer, anche se promosse una delle più significative stagioni riformiste del dopoguerra, non è mai stato un riformista, egli restò sempre un idealista rivoluzionario. Un riformista non torna mai indietro: se fallisce, e fallisce spesso, continua a cercare una strada per ottenere un qualche risultato migliorativo, non si vincola agli ideali della giovinezza. Se serve, li adatta, li modella, li aggiorna e, ogni volta che può, fa un piccolo passo in avanti. La connessione che Berlinguer e Moro provarono ad attivare tra masse popolari di diversa estrazione trovò finalmente realizzazione trent’anni dopo, nella costituzione del Partito Democratico che, manco a dirlo, subì e subisce tuttora i medesimi stress, meno cruenti ma ugualmente efficaci, da parte di chi non vede il cambiamento come promozione dell’evoluzione, ma solo come una minaccia alle posizioni conquistate. I risultati sono sotto i nostri occhi e purtroppo non basta un film o la foto di Berlinguer sulla tessera del Partito per esorcizzare quella maledizione.
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