È davvero sconfortante che Roberto Benigni abbia dovuto intitolare il suo monologo sull’Europa: “Il Sogno”. Il sogno è irreale, risiede solo nella nostra testa e, come riporta il Dizionario Treccani, rappresenta “immaginazione vana, fantastica, di cose irrealizzabili”. Brucia constatarlo, ma Benigni ha ragione. Lui ha giustamente, e con quanto fervore …, narrato le origini, le radici, l’evoluzione storica, di un “sogno”, che però al momento appare tutt’altro che prossimo ad inverarsi. E quanto realizzato finora è ben lungi da quello che davvero servirebbe per arrivare agli agognati (da noi sognatori) Stati Uniti d’Europa: è un pezzetto di una strada, non sappiamo nemmeno quanto lunga, ma certamente parecchio accidentata. Il bello (il tragico, ahimè!) è che nessuno, a parte la destra estrema, peraltro ben rappresentata dalla nostra Presidente (che ha scandito, con la consueta sicumera, che quella di Ventotene, quella federalista, “non è la mia Europa!”), ha il coraggio di dirlo chiaramente. Certo, tutti i leader, ma anche molti sondaggi, mostrano grandi professioni di europeismo ma, all’atto pratico, ogni idea o iniziativa di integrazione più profonda, di federazione vera, si arena in una palude di distinguo, di dubbi, di precisazioni, di cautele, di rinvii. Da decenni. Neanche una guerra alle porte, l’oggettivo ed incombente pericolo dell’imperialismo russo, riesce a sfondare il muro di inerzia che circonda l’idea di federalismo, per la quale in tanti si sono battuti, ma sono sempre stati battuti. Manca un leader, è evidente, ma nessuno nemmeno lo cerca perché, se pure ci fosse, darebbe fastidio, sarebbe ingombrante, impegnativo, come Mario Draghi … Ursula von der Leyen (UvdL) non ha le caratteristiche del leader: è volenterosa, paziente, tenace, ma altra è la leadership di chi convince e trascina, di chi disegna il futuro e lo realizza, anche gradatamente, ma con continuità. UvdL però non ha alternative: è stata appena nominata, ha una maggioranza solida e nessuno la insidia. Tocca quindi tenersela, cercando se possibile di influenzarla, per cinque anni salvo sorprese, ad oggi inimmaginabili (un sogno, appunto, come dice Benigni). E allora? Siamo condannati alla mediocrità, ad essere il solito vaso di coccio tra i vasi di ferro delle vere Grandi Potenze? Abbiamo già perso la tutorship degli USA, con il loro Presidente, palesemente attratto dall’uomo forte di Mosca, che dichiara a più riprese che l’Unione Europea è nata “to screw” gli americani (e vi assicuro che il termine è quanto di più chiaro possibile: “to screw” significa “avvitare”, chiaro no?), e ancora non riusciamo a fare la cosa più immediata, più indispensabile, più necessaria, che è l’abolizione, o perlomeno il disinnesco, del diritto di veto. Restiamo appesi alle decisioni di Ungheria, o di Cipro, o di Cechia, o di chi al momento opportuno decida di infilarsi nei processi decisionali di un’Unione di quasi mezzo miliardo di persone. E dopotutto va bene così a tutti, perché di cedere sovranità nazionale, anche in cambio di maggiore sovranità continentale, non ne vuol sentire parlare nessuno in modo concreto. Non dimentichiamo che ci sono volute due guerre mondiali, con decine di milioni di morti e distruzioni totali, per avviare timidamente il cammino europeo, a partire dalla CECA, poi la CEE, poi verso l’UE, con annessa area Euro. Settantacinque anni non sono pochi, di questi tempi sono un’eternità, e infatti del mondo del 1950 non resta nulla, se non la minaccia atomica, con tutto quel che consegue … Helmut Kohl disse che, se avesse chiesto ai tedeschi se rinunciare al marco e riunificarsi con l’Est, avrebbe ricevuto un netto rifiuto. Prese allora su di sé la responsabilità di procedere, confidando nel senso della Storia. Oggi la Germania ha in Parlamento forze consistenti, che contestano radicalmente l’idea di un’Europa federale, segno che i sentimenti del popolo sono ancora molto contrastanti. Non illudiamoci, non basta la leadership da sola, come non basta la sola volontà popolare. Servono entrambe. E neppure così puoi stare tranquillo: gli USA sono oggi teatro di una pazzesca involuzione democratica dopo 250 anni di storia esemplare, funestati solo dai quattro terribili anni della Guerra di Secessione, tra il 1861 ed il 1865, 160 anni fa. Eppure ... Nulla è scontato, la democrazia è fragile, lo sappiamo, e le leggi della termodinamica prescrivono che, senza una continua iniezione di energia, ogni sistema degrada verso il caos. Nulla può sfuggire, nemmeno la società democratica. Quindi, qualcuno deve mettere energia, leader o popolo che sia, nulla è gratis. Il problema è che anche Putin, o gli autocrati simili a lui, e purtroppo sono tanti, iniettano la loro energia malvagia nel sistema. E noi, ci opponiamo o lasciamo fare, ci adattiamo, cerchiamo accomodamenti o resistiamo? Qui in tanti hanno una gran voglia di normalizzazione, di riprendere gli affari con la Russia, e sono disposti anche a pagare un prezzo per questo. Se non ci va bene, bisogna contrastare questa tendenza, bisogna spingere e indirizzare la politica in un’altra direzione. Popolo e leader, ammesso che ve ne siano sulla piazza. Sarà una lotta dura, senza alcuna garanzia di successo, ma se non vogliamo che il sogno resti tale, non c'è altra via. Rischia di essere una lotta esistenziale, perché gli autocrati, effettivi come Putin o aspiranti come Trump, capiscono solo l’uso della forza, sia essa strettamente militare (eserciti, armamenti tradizionali o di nuova generazione), commerciale (dazi e barriere) o di comunicazione (le piattaforme, con il loro strapotere di influenza sulle persone). Ci attende perciò un surplus di impegno democratico, finanziario, culturale, ideale, e qualsiasi discussione provinciale, da cortile, su un pacifismo d’accatto prospetta una resa e serve solo a portare acqua al mulino dei nostri avversari, direi piuttosto nemici dichiarati. Noi, come Europa democratica, non possiamo rinunciare a nulla di ciò che ci caratterizza: né al nostro welfare, né al nostro stile di vita, né alla capacità di difenderci contro chiunque, ripeto chiunque, voglia attentare ai nostri principi. Non ci sono scorciatoie furbesche, escamotage tipici di una certa Italietta, ma nemmeno ambiguità da parte dei Paesi più esposti come Francia, Germania, Polonia, Spagna ed anche Regno Unito, che ormai torna ad essere quasi un membro aggiunto dell’Unione. “Nino, qui o si fa l’Italia o si muore …” disse Garibaldi a Bixio, a Calatafimi. Altri tempi, altri uomini, ma i nodi al pettine sono sempre nodi, e vanno sciolti. O ci culliamo nel sogno per altri decenni, o ci svegliamo e cominciamo a portare a casa qualche risultato concreto. Manca un Winston Churchill, ma non è detto che la Storia non ci stupisca, una volta tanto in bene.
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