La democrazia, come è del tutto evidente, ha bisogno di contraddittorio, ovvero di confronto dialettico tra visioni, analisi e proposte differenti. Quanto differenti, è difficile stabilirlo a priori. Come minimo, tutti dovrebbero riconoscersi nei valori fondanti di ogni democrazia, ovvero l’uguaglianza, la libertà, la giustizia, lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, ... E se qualcuno non si riconoscesse in quei valori e ne propugnasse il superamento, minando l’esistenza stessa della democrazia? Che si fa? Si può impedirglielo, anche ricorrendo alla forza, anche contraddicendo il principio di libertà? Certo, si dovrebbe sempre rimanere all’interno delle leggi di uno Stato di diritto ma, ad esempio, il recente caso rumeno pone non pochi problemi, che non si possono rimuovere con una scrollata di spalle. Noi occidentali (e affini) abbiamo troppo presto dato per scontato che certe basi ideali e pratiche dei nostri sistemi non sarebbero più state poste in discussione. Non è così, nulla è scontato. E quella che stiamo vivendo NON è un’emergenza improvvisa, da debellare con mezzi eccezionali, come fosse un COVID. E non passerà come il COVID… Purtroppo, si tratta di una crisi di sistema, che andrà superata, se ci riusciremo, con pazienza, con creatività, generosità e molto, molto, rigore. Chi vuole distruggere la democrazia va combattuto con le armi della democrazia, almeno fino a quando non si passi dalla dialettica alle vie di fatto, nel qual caso la difesa non può che trasformarsi in resistenza, per legittima difesa. Sono questi argomenti che disturbano, brutti e scomodi, ma sono tremendamente attuali, vista la temperie nella quale ci troviamo. Insomma, come si difende la democrazia da quelli che vogliono superarla, usando gli strumenti che essa stessa mette loro a disposizione? Il problema si è già posto cent’anni fa, quando fascisti e nazisti presero il potere passando attraverso libere (più o meno) elezioni: erano altri tempi, erano democrazie ancora rudimentali, più rozze, non c’era neppure il suffragio universale, ma ci vollero più di vent’anni e decine di milioni di morti per mettere una pezza al default. Non ne siamo usciti vaccinati … Oggi ci stiamo ponendo gli stessi interrogativi e le risposte sono ancora incerte. Quanta differenza si può tollerare dentro un sistema democratico, per evitare che esso collassi? Le differenze sono vitali, senza dialettica il sistema si trasforma in totalitarismo, ma gestire la dialettica pone problemi per i quali la soluzione non è evidente, perché riguardano il funzionamento stesso del sistema. Le fisiologiche differenze di posizioni all’interno delle democrazie sono da sempre state schematizzate in sinistra e destra. Si possono usare categorie diverse: progressisti e conservatori, democratici e repubblicani, riformisti e massimalisti, … L’importante è che entrambe le posizioni, ed anche quelle eventualmente intermedie, si riconoscano nelle regole di base, ovvero che governa chi ha la maggioranza, mentre la minoranza si prepara ad insidiare la maggioranza in libere elezioni e, in caso di vittoria, a sostituirla al Governo. I ruoli sono chiari e dovrebbe essere scontato che chi partecipa alla competizione politica lo faccia con l’obbiettivo di governare il Paese e non di sovvertirlo. Non dovrebbe neppure essere necessaria la presenza di forze di pura testimonianza, che non ambiscano a ruoli di governo. A che servirebbero? Governare è una responsabilità alla quale non si può sfuggire: se ti tocca, ti tocca, e devi farlo al meglio, per rispetto di chi ti ha dato il suo voto. Ambire a rappresentare la maggioranza dei cittadini deve essere l’obbiettivo di tutti e limitarsi a testimoniare posizioni marginali, minoritarie, senza possibilità né volontà di conquistare la maggioranza, inquina fortemente l’ambiente democratico, quasi quanto cercare di sovvertirlo. Può sembrare un’ovvietà, ma se non c’è sempre a disposizione una potenziale e credibile alternativa di governo, la maggioranza non trova rivali e diventa maggioranza perenne, ovvero la democrazia si trasforma nel suo contrario, il totalitarismo. Non è un caso che l’art. 49 della nostra Costituzione reciti: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. “Determinare la politica nazionale”, non testimoniare una qualche posizione estemporanea. Con quell’articolo viene conferita ai partiti politici una responsabilità alla quale non possono e non devono sfuggire: non preoccuparsi di come diventare maggioranza è una postura che la Costituzione non prevede. E allora, a che serve una sinistra, ovvero una delle parti in causa, se non sa come diventare maggioranza e continua a contemplare le sue contraddizioni senza trovare uno sbocco operativo? È una sinistra inutile, una sinistra che si arrende prima di combattere ad una destra che invece ha ben chiaro cosa significhi fare maggioranza. È un problema di poco conto? Un incidente dialettico? Macché, sono almeno cent’anni che la sinistra si dibatte in queste ambasce e ne esce sempre male e, anche quando per qualche combinazione astrale raggiunge la maggioranza, subito se ne pente, la distrugge e riconsegna la palla alla destra. Posso dire che ne ho le tasche, e non solo, piene? Io cittadino pretendo, ripeto, pretendo che la parte opposta alla destra, si chiami come vuole, costituisca un’alternativa credibile e concreta, perché ho il diritto di essere governato da forze che si alternano e non solo e sempre dagli stessi, che diventano una casta intoccabile, inamovibile qualsiasi cosa faccia. La democrazia senza alternanza è zoppa, è incompiuta, è menomata, come lo è stata, praticamente solo in Italia, per oltre quarant’anni dopo la Seconda guerra mondiale. Un’opposizione che non si industria per costituire un’alternativa in realtà si rende serva della maggioranza ed espone il sistema a possibili torsioni autoritarie. Io vedo questo rischio molto presente oggi in Italia: chi non lo capisce gioca col fuoco, e lo fa per ignavia, per incapacità, per miopia, per egoismo. Oggi, ad esempio, abbiamo un obbiettivo che in molti consideriamo prioritario: creare in tempi brevi le condizioni per gli Stati Uniti d’Europa, se non a 27 Stati, almeno con chi ci sta, con quel che ne consegue per la politica estera, la difesa, l’assurdo diritto di veto, il debito comune. L’argomento è per molti fastidioso perché è difficile, spinoso, così si preferisce scansarlo, rifugiandosi dietro a progetti di corto respiro e di più sicura popolarità. Ma l’argomento è un macigno che non si può aggirare: va affrontato e risolto, e tutte, dico tutte le forze politiche democratiche devono concentrarsi su di esso, mettendo da parte, almeno per un po’, le differenze che pure ci sono. Nessuno può rifugiarsi in comode nicchie ideologiche, come il pacifismo ad oltranza. Io sono preoccupato per un centrosinistra che è come non mai squassato da distinzioni spesso artificiose, personalistiche, tanto che su di esso non si riesce a fare alcun affidamento. Se i dirigenti non capiscono che hanno una responsabilità che non possono scansare, più prima che poi verranno travolti dalla Storia e lasceranno macerie. È già successo troppe volte. Succederà di nuovo, e così ci lasceranno senza strumenti per resistere alla crisi di sistema, che già oggi rischia di travolgerci tutti. Quelle piazze di sabato 15 marzo almeno questo dicevano chiaramente: c’è un obbiettivo che non può essere trascurato ed è la difesa della democrazia europea dagli attacchi delle nuove destre non democratiche. Allora, continuiamo a dividiamo sul Jobs Act e altri feticci ideologici, o cerchiamo di fare sul serio fronte alla crisi? |