Il Partito Democratico è in grande difficoltà. E non è una buona notizia.Inutile ricordare che il PD nacque, ormai ben 14 anni fa, come la casa dei riformisti, come la sintesi coraggiosa delle tante e diverse anime del centrosinistra italiano, che le premesse erano quelle di misurarsi con il governo del Paese in modo pragmatico, progressista, moderato nei toni ma radicale nelle riforme (come qualcuno dice ancora adesso), e che al primo contatto elettorale il risultato fu più che promettente, con il voto di oltre un terzo degli italiani. Questo ha spaventato molti, perché ha mostrato che lo spazio c’era eccome, che l’aspettativa popolare era molto alta, e non si poteva deluderla con un ennesimo partito consociativo, accomodante, minimalista, ma si trattava di costruire davvero una forte alternativa riformista, ad ampio spettro, per uscire dagli incubi berlusconiani ed inserirsi nelle grandi democrazie compiute dell’Occidente. Tant’è che l’originaria, ambiziosa, vincente, impostazione veltroniana fu subito sottoposta a fortissimo stress, fino a costringere il Fondatore stesso a ritirarsi dalla politica. Nel frattempo, Silvio Berlusconi ci portava attraverso una spaventosa crisi globale senza idee e senza strumenti, fino alla tragedia dell’estate 2011, quando l’Europa, a firma Trichet e Draghi (rispettivamente Presidente uscente ed entrante della BCE), ci intimava per iscritto di procedere a feroci aggiustamenti della nostra finanza pubblica. Exit Berlusconi, arriva Monti con Fornero e tutto il carico di lacrime e sangue, cui il PD presta corpo ed anima, e responsabilità. Arriva così il 2013, quando un incerto e confuso Bersani, espressione dell’ala conservatrice, non veltroniana, la “Ditta”, del PD, non capisce di dovere osare un’immagine politica più aggressiva, contrastando i cinquestelle arrembanti, ma invece si appiattisce al moderatismo di Monti, che peraltro ben presidiava il settore centrale della coalizione. “Non-vittoria”, cioè sconfitta, quando doveva e poteva essere un trionfo. Exit Bersani, governicchio di Letta “stai sereno”, esplosione del fenomeno Renzi, exploit alle europee con più del 40%. Evidentemente funziona ancora: il cambiamento viene percepito e premiato, parte un fiume di riforme, comprese quelle istituzionali, peraltro espressamente richieste dal Presidente Napolitano, ora sostituito con solerte perizia da Sergio Mattarella. Panico tra i conservatori di sinistra! “Deriva autoritaria”, “pericolo per la democrazia”, l’”uomo solo al comando”, tutta una serie di clamorose minchiate (mi si perdoni il francesismo) per fermare il tumultuoso processo di riforma, che finalmente stava inverando l’intento originale del PD. Tutti contro uno, l’uno che si difende come può (non benissimo), il referendum come un’ottima occasione per bloccare tutto e tornare indietro. Funziona anche questo a meraviglia. Ancora una volta le forze della conservazione hanno la meglio e fermano l’evoluzione riformista del PD. E oggi, oggi siamo ancora lì. Il PD è incerto sulla strada da percorrere, combattuto tra l’inseguimento ai populisti a cinquestelle ed una decisa strategia riformista, che lo porterebbe lontano dei demagoghi nostalgici del governo Conte e vicino a Draghi. Pencola, assume posizioni magniloquenti ma inefficaci (basti pensare al DDL Zan, sparito dai radar, oppure allo ius soli, il voto ai sedicenni, …), non supporta con la dovuta convinzione ed efficacia il Governo nel contrasto delle posizioni più estreme di Conte, polemizza sterilmente con Salvini, non trova una improbabile sintesi tra massimalisti e riformisti. Ancora … dopo 15 anni! Siamo sempre lì! Io temo che questo iato sia ormai così incancrenito da risultare irriducibile: non vedo come si possano più tenere insieme quelli che applaudono Travaglio che insulta Draghi (lo so che quelli sono formalmente un altro Partito, ma è solo una finta … la “Ditta” è sempre quella), e che guardano con sospetto il “banchiere” Presidente, con quelli che hanno una cultura ed una pratica riformista, anche se purtroppo poco dotata di coraggio e slancio generoso. Io temo che mantenere questa ambiguità sia deleterio per le sorti del centrosinistra italiano, credo che sia una cattiva notizia l’acquiescenza al tentativo a tutti i costi di tenere insieme sotto le stesse insegne persone ed idee che non hanno alcun collante ideale e si aggregano solo per la gestione del potere. È una iattura, è un guaio, perché di nuovo abbiamo l’occasione della vita, l’ennesimo treno che passa ancora e che una parte, retriva e conservatrice, della sinistra si ostina a perdere. Ma in realtà non lo perde: nemmeno va alla stazione a vedere se passa … E allora quanto ci vorrà ancora per arrivare alla resa dei conti? Quanto ancora per capire che senza una decisa sterzata non si va da nessuna parte, che l’unanimismo di facciata è deleterio, è una farsa, è una buffonata, per essere ancora più chiari. Chi ha paura del cambiamento dovrebbe smetterla di proclamarsi di sinistra. Chi pensa che Conte sia ancora un punto di riferimento del progressismo, che Travaglio possa esprimere idee di sinistra, che il giustizialismo, o l’assistenzialismo, abbiano diritto di chiamarsi di sinistra, che si debba tornare ad un’economia con forte presenza pubblica, che si debbano preservare antistorici privilegi castali come quelli della magistratura o di certa dirigenza statale, che il futuro sia conservare anche quello che palesemente non funziona, anche se a tanti fa comodo, ebbene, è ora di dirlo, non ha nulla a che fare con la sinistra. Almeno che non vogliamo continuare a chiamare sinistra l’operaismo senza operai, il sindacato senza lavoratori, il mito del posto fisso nel pubblico impiego, la scuola senza insegnati preparati ed adeguati. Per andare avanti serve colla, colla forte, resistente, tenace, non lo sputo degli interessi consociativi.
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