La scissione del M5S tra governisti dimaiani e no (non è ancora chiaro come si configurino quelli rimasti con Conte … critici, ipercritici, antagonisti, semplici malpancisti, …), le scomposte e goffe manovre mediatiche dello sciamano Travaglio, bramoso di creare un casus belli purchessia su cui impalare il suo arcinemico Draghi, infine l’approssimarsi inesorabile delle prossime elezioni (mancano una decina di mesi, ma si sa che la sabbia nella clessidra sembra correre più velocemente, quando si avvicina la fine …) impongono a tutti noi, volenti o nolenti coinvolti nella vicenda pubblica, uno sforzo supplementare di riflessione, un approfondimento sulle forze in campo e sulle possibile strategie.La cosa può risultare noiosa e poco divertente, ma è inevitabile. Passi oltre chi ha di meglio da fare … Ciò premesso, provo a mettere in fila alcuni pensierini, peraltro tutt’altro che definitivi e tutti suscettibili di ampia verifica. Alla fine del 2011 (la prendo un po’ alla lontana ma, credetemi, è indispensabile) entrò in scena, chiamato a gran voce dalla parte più responsabile del Paese, spaventata a morte dalla caduta di credibilità del Cavaliere (ricordate i sorrisetti di Cannes?), l’austero professor Mario Monti il quale, opportunamente e per tempo preparato dal previdente Napolitano, varò un governo di larghe intese che mise mano ad una serie di provvedimenti anche pesanti per rimettere il Paese in carreggiata dopo le sbandate berlusco-tremontiane (lo spread oltre 500 …). Indipendentemente dal giudizio che si può dare sul merito dei provvedimenti, Monti ottenne il risultato primario: allontanare dalla scena il compromesso Cavaliere, dando segno ai mercati che l’Italia voltava pagina. Quasi tutti (la Lega rimase all’opposizione) appoggiarono Monti, con più o meno (o nessun) entusiasmo, in attesa delle elezioni previste per inizio 2013 (si tennero a febbraio). Come al solito, i più convinti e responsabili furono i democratici, governisti per vocazione, mentre l’ala berlusconiana mal sopportò l’avvento dell’usurpatore Monti. Alle elezioni si presentò l’alleanza di centrosinistra Italia Bene Comune, con a capo Bersani, segretario del PD, che nelle primarie di coalizione del dicembre 2012 aveva battuto per 60 a 40 l’allora outsider sindaco di Firenze Matteo Renzi. Monti da parte sua decise di tentare l’avventura politica in autonomia e fondò Scelta Civica, partito riformista centrista, che attirò parecchi esponenti della società civile, tutti accomunati da una evidente propensione per il centrosinistra e certamente antiberlusconiani. La campagna elettorale di Bersani parve tutta in discesa, sospinta dai favori del pronostico in vista di una vittoria larga, supportata verso il centro dal neo partito di Monti. Tutto il PD appoggiava con sufficiente compattezza (cosa rara) il Segretario candidato premier. Peccato che lo svolgimento della campagna del prode Bersani si rivelò del tutto fallimentare: anziché sforzarsi di coprire l’ala sinistra dello schieramento, insidiata dal ribellismo anticasta, populista, dei rampanti cinquestelle, Bersani si lanciò in un inutile e deleterio inseguimento di Mario Monti, giurando e spergiurando che mai e poi mai avrebbe fatto un governo senza di lui. Cosa che era peraltro evidente e non bisognosa di essere sottolineata, soprattutto perché nel frattempo Monti era diventato il bersaglio della protesta populista, membro inviso della casta, torturatore di pensionati e affamatore di poveri. Bersani non faceva che ripetere: “Non faremo mai un governo da soli, nemmeno con il 51%! Ci accorderemo col Professore”. Tanto zelo bersaniano fu ripagato nelle urne con la famosa “non-vittoria”, ovvero una sconfitta bruciante e pesante, tanto più perché la vittoria era largamente annunciata, data quasi per sicura. Insomma, un’occasione d’oro buttata via per una sciatteria politica su cui Bersani non ha mai fatto la benché minima autocritica. I cinquestelle presero sei milioni di voti, quasi tutti sottratti all’area di centrosinistra, e divennero ufficialmente la spina nel fianco del sistema. Seguì un lungo stallo, poi il governo Letta, ancora di larghe intese, e quindi quello Renzi: storia nota, sulla quale non mi soffermo. Perché ho ricordato questo episodio di storia recente? Perché pare proprio che la storia si stia ripetendo. Vediamo. C’è grande affollamento nel cosiddetto “centro” riformista, tante forze (o debolezze) che cercano di presidiare un’area civica importante, dove si giocano milioni di voti che non possono e non debbono essere regalati né all’astensione né tantomeno alla destra. In qualche modo, quest’area, oggi confusa e litigiosa, potrebbe diventare davvero un’”area Draghi”, purché riesca a strutturarsi e organizzarsi in modo riconoscibile ed efficace elettoralmente. Che partecipi Draghi in persona o meno (cosa al momento più probabile) non mi pare rilevante. È rilevante invece il riferimento programmatico ed il pragmatismo come metodo di lavoro. Lo spazio politico c’è e va presidiato con intelligenza e senza infantili ripicche. Non è facile, ma è indispensabile. Chi non lo capisce danneggia se stesso, quelli vicini ed il Paese. E il PD, partito strutturato e oggettivo perno del centrosinistra, che ruolo deve giocare? Serve che corra dietro ai riformisti di “centro”, cercando di coinvolgerli in un’alleanza formale (che rischierebbe di diventare ancora più litigiosa, o è meglio che si dedichi a recuperare voti verso quella parte di sinistra che dovrebbe finalmente avere capito il bluff dei cinquestelle e che quindi adesso rischia di estraniarsi ed astenersi? Sono altri milioni di voti che, almeno in parte, dovrebbero essere recuperati ad un progetto riformista. Come farlo? Non certamente corteggiando un ectoplasma politico ormai del tutto squalificato ed inaffidabile come Giuseppe Conte e la corte dei miracoli di suoi cattivi consiglieri, da Travaglio a Casalino, da Bettini a D’Alema, forse da Emiliano a Provenzano. Il mio consiglio non richiesto è di ignorarli del tutto e lasciarli cuocere nella brodaglia rimasta in fondo alla scatoletta di tonno. Serve recuperare gli elettori, non Taverna e Di Battista, e gli elettori li recuperi parlando chiaramente di temi di loro diretto e specifico interesse, dai salari al lavoro, dalla sanità ai servizi, dall’ambiente al reddito di cittadinanza, ma trasformato in efficace strumento di lotta alla povertà e non sussidio diseducativo. Insomma, quello che si chiamava REI e che fu abbandonato forse perché ricordava troppo l’odiato REnzI. Tutto il centrosinistra dovrebbe d’ora in avanti smetterla di parlare di sigle e di leader, effettivi, potenziali o aspiranti che siano, e concentrarsi su una lista ben articolata di progetti da realizzare da parte di un governo riformista. Bisogna essere concreti, perché alla mitica “ggente” delle giravolte e dei mal di pancia di Conte e soci non importa un fico secco. Anteporre le alleanze ai progetti è operazione masochista e perdente. A differenza del 2013, adesso il centrosinistra deve organizzarsi ed articolarsi in modo razionale e funzionale alla vittoria, indipendentemente dalla legge elettorale. I cinquestelle non esistono più e non devono più costituire un intralcio. Sforzarsi per farci le liste insieme a me pare un’operazione davvero autolesionista. A questo proposito, a me pare sempre più evidente l’opportunità di tornare ad un sistema proporzionale puro, con soglia di sbarramento alta (5%), sistema che permetterebbe di fare campagne elettorali chiare, ben connotate, raccogliere il massimo di voti e poi, a urne chiuse e voti contati, cercare le convergenze per un Governo di legislatura. Se Draghi vorrà guidarlo, alleluia! In caso contrario, si farà senza. La classe dirigente non manca: basta non dovere per forza accontentare gente che cerca solo strapuntini a buon mercato. Probabilmente la sinistra radicale, forse anche Conte e gli avanzi del M5S, se ce ne saranno ancora tracce, resteranno fuori da questo progetto. Sarò chiaro: meglio così. Non ci servono altri Rossi e Turigliatto di infausta memoria. Gli anni da qui al 2026 almeno saranno decisivi per la rinascita o per la decadenza definitiva di questo Paese. Serve gente seria, competente e ben motivata. Astenersi perdigiorno.
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