La signora (si fa per dire …) di Viareggio che con il SUV ha schiacciato uno scippatore contro una vetrina, come una mosca fastidiosa, per riprendersi la borsa rubata, e poi se ne è andata senza neanche degnare di uno sguardo il malcapitato moribondo (che infatti di lì a poco è morto davvero) non è purtroppo un caso isolato di follia vendicativa. Le cronache sono da anni piene di giustizieri fai-da-te, che godono peraltro dell’appoggio esplicito, e anzi del favore, di una parte non piccola del nostro sgangherato quadro politico e anche della cittadinanza che ad essa fa riferimento. Tabaccai, gioiellieri, gestori di pompe di carburante, comuni cittadini, per carità qualcuno davvero esposto più di altri alla piccola delinquenza, hanno riempito le cronache di gesti a volte efferati di ritorsione contro delinquenti che avevano aggredito loro e/o i loro beni. Hanno certamente reagito ad una offesa recatagli da un violento, sul quale si è scaricata la loro reazione, in modo spesso spropositato. Nessuna novità, quindi. Ma è normale? È inevitabile? È “giusto”? Dobbiamo mettere questi episodi nel novero dei problemi derivanti dal vivere in una società inevitabilmente mente imperfetta? I rapporti interpersonali sono alla base della convivenza civile e le regole di una società organizzata tutelano, o dovrebbero tutelare, le reciproche interazioni. Dove ci sono regole, ci sono anche violazione delle stesse, quindi … Ma da questi casi, come da altri simili, scaturiscono considerazioni su cui vale la pena soffermarsi. Sui giornali, in televisione, sulle bocche di molti, una parola campeggia su tutte le altre: GIUSTIZIA. Parola che ritorna sempre, in ogni fatto di sangue, che sia un incidente stradale, sul lavoro, una rapina, un femminicidio o un omicidio efferato. GIUSTIZIA, sia fatta GIUSTIZIA. La parola si declina in molti modi, di destra o di sinistra. La si collega all’immigrazione o alla legittima difesa (Salvini docet), la si collega al capitalismo selvaggio e spietato (certa sinistra collega ogni problema al demone del capitalismo …). Ma il sospetto, anzi più che un sospetto, è che la parola sottintesa sia invece un’altra, ben più terribile: VENDETTA. Lo si capisce dalla voglia di pene esemplari, di rapidità (e sommarietà) del giudizio, dalle interviste sapientemente scelte e montate dai media, dagli sguardi taglienti della gggente indignata, dai social, dai pochi dubbi ammessi sulle verità fatte circolare da un sistema che su quelle soffiate lucra in modo spregiudicato. Nessuno lo riconoscerà mai, ovviamente. Tutti faranno finta di avere ben chiara la differenza, ma la dissimulazione è ben poco efficace. Si pretende, illico et immediate, giustizia per le vittime, senza riflettere sul fatto che non è alle vittime che si deve giustizia ma alla società, che è stata offesa dal reato commesso, qualunque esso sia. Giustizia è l’applicazione delle leggi che la società si è data, applicazione verso tutti, in egual modo, equamente, con procedimenti chiari, trasparenti e regolati. In un moderno Stato di diritto il processo giudiziario penale è condotto in nome della società, non delle vittime, il cui ristoro spetta alla giustizia civile in forma di risarcimento. La pena, qualunque essa sia, è lo Stato che la irroga, a nome di tutti i cittadini, ugualmente vittime del reato nel loro insieme. Chi offende uno offende tutti. E tutti si difendono dall’offesa. Nessun singolo può farsi giustizia da solo. E l’uso della forza è demandato allo Stato, salvo eccezioni ben classificate. Quando nei film americani si sente la formula: “Lo Stato dell’Illinois contro John Smith”, non è un vezzo dello sceneggiatore hollywoodiano, è il fondamento del diritto moderno. L’accusa infatti è la Pubblica Accusa, c’è un Pubblico Ministero a sostenerla, in nome e per conto di tutta la società. Le vittime non c’entrano più. La sentenza è emessa “in nome del popolo italiano”. Ma vi pare che sia questo ciò che veicola il truce Salvini quando, sottolineando l’indubbia origine africana dell’italiano che ha assassinato senza motivo apparente Sharon Verzeni, chiede pene esemplari? O quando qualche bel tomo suo amico invita a comprendere le ragioni della signora col SUV? In realtà si chiede solo vendetta; fosse per loro, con sodali e generali affiliati, forse chiederebbero la legge del taglione, occhio per occhio. Hanno perfino sostenuto che a persone che si macchiano di delitti, se non di stirpe italica (attenzione, siamo ad un passo dalle leggi razziali del 1938 …!), bisognerebbe togliere la cittadinanza, incurante che la cittadinanza non è un’onorificenza, un premio della lotteria, una cosa che resta disponibile per qualcuno. La cittadinanza è uguale per tutti e non esite una cittadinanza definitiva e una revocabile. Si è cittadini e basta, per sempre. E se si sbaglia, si paga da cittadini il debito verso la società, secondo le leggi vigenti. Questa barbarie giuridica non dovrebbe essere derubricata a fenomeno di colore politico: stiamo parlando dei fondamenti del contratto sociale che ci lega e ci permette di vivere in un Paese civile e non in una jungla governata dalla legge del più forte. Le vittime, o i parenti delle vittime, hanno il pieno diritto di essere sconvolti e, a caldo, possono dire qualsiasi cosa, se un giornalista ha il poco tatto, o la sfrontatezza, di mettere loro un microfono sotto il naso. Ma guai a farci trascinare tutti dalla loro rabbia. La rabbia passa, viene elaborata e viene sostituita, in tempi opportuni, da una visione più realistica di quanto avvenuto. È capitato alle vittime del terrorismo, della mafia: il tempo aiuta a mettere tutto nella giusta prospettiva. La società civile ha altri criteri: si dota di un sistema giudiziario che deve mantenere la fiducia dei cittadini verso le leggi, verso un ordine che garantisce tutti. Legge e ordine, tocca ripeterlo per l’ennesima volta, non sono parole di destra, sono la garanzia che la società sia civile e non sia preda dei furori giustizialisti di una parte, piccola o grande che sia, di essa. Tutti dobbiamo vigilare su noi stessi: ora il rischio della sete di vendetta si può applicare anche al reato orribile della signora del SUV: ma anche lei ha diritto ad un giusto processo, dove presumibilmente le verrà comminata una pena adeguata. Guai a lasciarsi trasportare dalla rabbia sociale, il vero cancro della nostra società. E vale per ogni cittadino, indipendentemente dalla sua posizione e funzione sociale, ed in particolare per chi la giustizia la deve amministrare ogni giorno. Equilibrio, non rabbia. Il Grande Inquisitore della Procura di Milano (ex …, per fortuna), quello che sostiene che gli innocenti sono colpevoli non ancora scoperti, sostiene pure che ad ogni detenuto in carcere debbano bastare tre, dico tre, metri quadri di area vitale. Tocca ricordare all’esimo leguleio che la radice quadrata di tre è 1,73, ovvero 173 centimetri di lato del quadrato generosamente messo a disposizione di ogni detenuto. I detenuti sono in carcere per giustizia o per vendetta? Viviamo in tempi complicati: le relazioni sociali ci offrono grandi possibilità di arricchimento reciproco, ma anche terribili opportunità di espansione della rabbia, dell’odio. Del rancore. I social, ancora colpevolmente senza alcuna regolamentazione, amplificano a dismisura questi sentimenti; rischiamo di abituarci e dare tutto per scontato, per normale, dimenticando che l’organizzazione delle nostre società libere è frutto di secoli di sacrifici, che ancora oggi ci sono posti dove si viene uccisi per un velo portato male, dove è vietato cantare, studiare, amare liberamente chi si vuole, dove la realtà dei fatti è continuamente e violentemente piegata alle necessità del potente di turno. Nessuno ci salverà dal declino, se non ci penseremo noi stessi.
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