Scrive Walter Veltroni, che in politica è ormai un ex-tutto, ma che comunque ne resta un disincantato osservatore: “Il pensiero democratico deve trovare soluzioni nuove, armoniche con la sua identità, capaci di parlare alle inedite forme di disagio, specie tra i più deboli. È il tema di cento anni fa, in realtà.” Aldilà del linguaggio un po’ criptico, da politico del Novecento, è difficile dargli torto … Sono infatti cent’anni e più che il pensiero riformista cerca la sua strada per diventare egemone e non la trova, essendo continuamente costretto a scavalcare ostacoli di ogni tipo: alcuni, inevitabili e non sorprendenti, frapposti dagli avversari di destra, altri, molti altri purtroppo, apparecchiati da una parte politica che si vuol far chiamare sinistra, ma che in realtà non ne ha le caratteristiche peculiari. La destra e la sinistra nacquero al tempo della Rivoluzione Francese, quando i conservatori dell’Ancient Regime erano soliti sedere nella parte destra dell’Assemblea, mentre i progressisti, innovatori e riformisti, occupavano la sinistra. Non era disputa filosofica, entrambi si contendevano il potere, e non scherzavano. Da allora è passata tantissima acqua sotto i ponti della politica, e infatti adesso si fa fatica a ritrovare quella vecchia schematizzazione. A destra si trovano rivoluzionari che mettono in discussione le basi più profonde della democrazia, si fanno chiamare conservatori, ma in realtà non vogliono conservare nulla e tutto vogliono sovvertire. Ora hanno trovato in Donald Trump il leader carismatico e in Elon Musk il visionario tecnocrate. A sinistra si trova invece una miriade di sparuti, timidi, nostalgici e litigiosi conservatori, tutti preoccupati di mettere le braghe al progresso, spaventatissimi alla sola idea di dover elaborare e proporre quello che suggerisce Veltroni, cioè il coraggio di innovare, di inventare linguaggi nuovi, interessanti ed attraenti, che parlino ad ampi strati di popolazione attiva, pragmatica e non rigidamente ideologica. L’omogeneità sociale è andata a farsi benedire da tempo: oggi si fa fatica a trovare sintonie tra un ceto medio impoverito, vecchi poveri, nuovi poveri, gente che povera non lo è affatto, ma che ha una paura fottuta di diventarlo, insomma un marasma di esigenze, a volte persino di paranoie (vedi il problema dell’immigrazione), tra le quali è difficile districarsi ed alle quali è problematico arrivare con argomenti concreti, convincenti e soprattutto coerenti con i principi democratici. E così si discute amabilmente di campi più o meno larghi, di come marciare divisi per colpire uniti o viceversa, di primarie, di leader ipotetici, di coalizioni, desistenze ed altre amenità, su cui si scannano larghe fette di professionisti della politica disoccupati, di sognatori e acchiappanuvole a tempo pieno. Tutti gli altri, o si disperano, o se ne fottono. Nel frattempo, le destre, sempre più arcigne ed impunite, fanno bello e cattivo tempo, mettendo a ferro e fuoco quel che resta della democrazia. Era così cent’anni fa, con Turati, Matteotti e Gramsci, che litigavano furiosamente mentre Mussolini faceva scempio del sistema democratico, è così ancora adesso. Eppure, eppure … le strade non sono tutte sbarrate. Ad un certo punto del film “A complete unknown” si sente il protagonista, un giovane Bob Dylan, già sulla strada del successo planetario, e sempre, già da allora, alle prese con un rapporto conflittuale con il suo pubblico, che dice: “Tutti si chiedono da dove vengono queste canzoni. Ma se li guardi in faccia, in realtà si stanno chiedendo perché le canzoni non sono venute in mente a loro.” Trovo la frase, chissà se di Dylan o degli sceneggiatori del film, folgorante, estremamente rappresentativa di tutta la sua fantastica produzione artistica e del perché essa abbia così colpito l’immaginazione popolare per decenni, e continui a farlo. Qual è infatti il compito della musica o della cultura popolare, se non quello di arrivare a tutti, colpire tutti, farsi capire da tutti, tanto da creare addirittura processi di transfer e di identificazione? In effetti, cosa ci voleva per scrivere una canzone come “Blowing in the wind”? Tre accordi in croce, una melodia semplice, piana e ripetitiva, un testo senza paroloni, un linguaggio scarno, ma diretto, denso e comprensibile a chiunque, di qualsiasi razza, religione, livello sociale e culturale. E così cento altre canzoni che, a risentirle nel film, cantate e suonate (benissimo!) da Timothée Chalamet, non hanno perso nulla del loro formidabile potere comunicativo, a oltre sessant’anni di distanza. Pensiamoci bene: sessant’anni è come se negli anni Cinquanta del secolo scorso noi ci fossimo emozionati per canzoni di fine Ottocento: è la stessa distanza temporale … Pare incredibile, ma il segreto è proprio quello lì: le canzoni di Dylan continuiamo a sentircele sulla nostra pelle, nella nostra testa, ed a chiederci: ma perché non è venuta in mente a me? Anche se le condizioni storiche, sociali, politiche, economiche, tecnologiche sono ormai tutte diverse e sia passato ben oltre mezzo secolo, cosa che con il tumultuoso progredire di questi tempi vale almeno come quattro secoli di una volta. La magia di quelle canzoni non è mutata, la loro capacità di emozionare nemmeno, come la stringente attualità dei loro temi, scavalcando generazioni intere. La musica popolare (meglio, la cultura popolare) ha proprio quel compito lì, e Dylan l’ha interpretata a livelli artistici stratosferici. Chi gli ha conferito il premio Nobel per la letteratura deve avere pensato esattamente questo; deve avere riconosciuto il valore universale di quella produzione e l’ha voluto sancire per sempre, anche se lui, pensa un po’, s’è guardato bene perfino dal ritirarlo, il Nobel … Ecco, la sinistra dovrebbe essere capace di compiere operazioni culturali simili, se vuole riguadagnare il consenso, colpire l’immaginario popolare e battere la destra reazionaria. Si può fare: l’hanno fatto, o almeno ci hanno provato, Clinton, Blair, Obama, … Noi non dobbiamo permettere che lo faccia anche Trump, o Musk, o Meloni. Essere profondi, popolari e non populisti, bella scommessa … Adesso come allora, … the times they are a-changin’ … Venite senatori, deputati, per favore ascoltate la chiamata. Non state sulla soglia, non bloccate la sala Perché colui che si farà male sarà colui che ha temporeggiato. La battaglia che fuori infuria presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri, for the times they are a-changin’.
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