AVVERTENZA: l’intervento che vi propongo è un po’ lungo e forse noioso; è destinato a tutti quegli impallinati, un po’ drogati, di politica che non riescono a fare a meno di domandarsi chi e come può avere gli strumenti per cambiare il corso politico del Paese, non essendo per niente soddisfatti, diciamo, delle prestazioni dell’attuale classe dirigente. Chi invece ritiene che tutto stia andando egregiamente e che non valga la pena agitarsi per migliorare lo stato delle cose non faticherà ad impiegare il tempo in attività più sollazzevoli. Grazie agli uni e agli altri. C’è un grande malato nella politica italiana: si chiama Partito Democratico. Oddio, non è che gli altri partiti sprizzino salute ma, com’è come non è, chi governa gode del bonus di governare (grande panacea …), chi si oppone senza ambizioni di governo ha la vita facile di chi non ha responsabilità alcuna e può permettersi di pontificare sui problemi dell’universo mondo, ben sapendo che non toccherà a lui affrontarli e, “combattendo, finirli”. Il Partito Democratico invece si trova nella scomoda situazione del vorrei, ma non posso, vorrei, ma il prezzo da pagare è troppo alto, vorrei, ma le condizioni generali sono sfavorevoli e la gente, la mitica “base”, forse non capirebbe. La confusione regna sovrana. Non è una bella situazione. E si vede. Quando, nell’ottobre del 2019, un pezzo del Partito restituì la tessera, avendo constatato come lì dentro non ci fosse più l’agibilità politica per perseguire gli obbiettivi definiti alla fondazione del Partito nel giugno 2007 (per chi lo ricorda, il discorso di Veltroni al Lingotto, qui a Torino), io lo feci, come si usa dire, con la morte nel cuore, senza alcun entusiasmo. Lo dissi, lo scrissi, venni tacciato di nostalgia e poca fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” del riformismo nel centrosinistra. A me pareva invece obbligatorio prendere atto di come le premesse e le intenzioni sulle quali era stato costituito il PD fossero tutte fallite miseramente (e il referendum del 2016 sulla riforma costituzionale, a cui il Partito che l’aveva promossa e approvata in Parlamento era andato vergognosamente spaccato in due, ne era stato la più plastica dimostrazione), tanto che ai riformisti non restasse altro che migrare, in cerca di nuove opportunità. Opportunità che c’erano davvero, ed erano anche consistenti, tant’è che la diaspora scatenò reazioni furibonde, che coinvolsero persino una parte molto militante della Magistratura, la quale si impegnò da subito per stroncare ogni ambizione di crescita del nuovo Partito, scatenando in maniera surrettizia inchieste, avvisi, arresti, perquisizioni a tappeto, ..., manco fosse nata una pericolosa cosca mafiosa. Seguirono gli anni della fatwa contro Matteo Renzi, conclusa nel nulla più assoluto, ma solo molti anni dopo, quando l’effetto distruttivo che doveva ottenere era stato ampiamente ottenuto. Molti riformisti veri e sinceri scelsero allora di restare nel PD ma, come dire, si inabissarono, sopraffatti dalla smania di cambiamento, un autentico cupio dissolvi, una damnatio memoriae, che peraltro durano tuttora. Si susseguirono Segretari di non elevatissima caratura: a Nicola Zingaretti, che si dimise schifato dal correntismo che pure lo aveva portata alla Segreteria, seguì un Enrico Letta indeciso su tutto, ma armato di una ferrea prosopopea, fino alla epifania della semi-sconosciuta Elly Schlein, che nessuno vide arrivare, e che infatti al Congresso non ottenne la maggioranza tra gli iscritti (si fermò al 35% scarso), ma la ottenne nelle successive primarie aperte. Questo strumento era stato pensato in ben altre condizioni politiche, quando il PD era davvero la forza largamente egemone dell’area, ma poi nessuno aveva avuto più il coraggio di metterlo in discussione, quando quell’egemonia era ampiamente sfumata. Comunque sia, Schlein vinse le primarie con il 54% (non proprio una maggioranza bulgara) e cambiò profondamente la natura del Partito. La malattia del PD era entrata nella sua fase più acuta, fase da cui non è ancora uscito e che non pare affatto avviata a remissione. È fondamentale ricordare che il PD era nato per rappresentare tutto il centrosinistra (la famosa “vocazione maggioritaria”), ma con una forte e all’apparenza scontata prevalenza della parte riformista, pragmaticamente votata al Governo del Paese, non estremista né antagonista. Non era la prosecuzione dell’ultimo PCI con altro nome, e nemmeno un circolo di intellettuali un po’ sognatori e acchiappanuvole. Il PD doveva contenere e rappresentare tutti (o quasi tutti), ma con il patto “democratico” che la minoranza non riformista accettasse di essere minoranza e non si ergesse ad antagonista strutturale nei confronti della principale vocazione politica del Partito. E minoranza lo era davvero, fino alla strana elezione di Elly Schlein, favorita peraltro da forti contributi esterni nelle primarie aperte. Ma, a partire dalla riforma costituzionale, prima votata da tutti e poi rinnegata al referendum, il Partito era divenuto un Vietnam, spaccato e ferocemente in lotta con sé stesso. Non si colse che essere credibili come forza di Governo richiede un’unitarietà di intenti che non deve cancellare le differenze, ma nemmeno renderle ingestibili. Le cosiddette correnti possono rappresentare una ricchezza culturale, purché la dialettica resti nei limiti fisiologici e purché esse non si sabotino tra di loro, bloccando l’azione del Partito. Questa contraddizione strutturale è la radice profonda del male del PD ancora oggi. Essere “testardamente unitari”, come ama ripetere la Segretaria, non può significare dimenticare il quadro dei valori fondativi del Partito che nasce riformista e non movimentista. Quando su un tema dirompente e capitale come l’Ucraina (ma con il Medioriente non è diverso) si presentano e si votano, a Roma ed a Bruxelles, tre, quattro, cinque mozioni diverse e contraddittorie, non è sana dialettica interna, è pericolosa anarchia, è colpevole mancanza di linea; la gente lo vede, lo sente, non gradisce. E non vota. Chi impedisce ad Emanuele Fiano di parlare perché ebreo, lui, figlio di un sopravvissuto di Auschwitz, non può essere guardato con indulgenza dalla classe dirigente: deve essere condannato in ogni modo, nettamente, senza possibilità di equivoco, anche se si perdono i voti di quattro estremisti. Chi pensa che Putin abbia in fondo le sue buone ragioni, che l’Ucraina debba abbassare la testa in nome di una “pace terrificante” e sostiene che la Russia ha già vinto una guerra dove, in oltre tre anni e centinaia di migliaia di morti, il fronte s’è spostato solo di qualche decina di chilometri, evidentemente è animato da sentimenti che difficilmente possono trovare albergo in una forza riformista europea. Qui non si parla di un emendamento alla Finanziaria, ma del posizionamento del Partito sulla scena internazionale e su questo non può mancare un comune sentire. Quindi, o si trova un’intesa ragionevole e in linea con l’Occidente, o diventa molto difficile proseguire, facendo “testardamente” finta di niente. Si rischia la stolidità, ben oltre la testardaggine. Ovviamente può esserci dissenso, ci mancherebbe, ma alla fine la posizione del Partito deve essere una e una sola, pena la totale mancanza di credibilità: tutte le differenze, legittime, devono essere comunque asservite all’obiettivo generale del Partito che è e deve essere quello di vincere e governare, non solo testimoniare disagio e dissenso. Serve autorevolezza per tenere ben dritta la barra del riformismo e limitare gli istinti gruppettari di certe frange estreme. Senza credibilità qualsiasi potenziale alternativa alla destra diventa velleitaria ed inefficace, diventa controproducente, perché per governare serve chiarezza. A destra il collante del potere è fortissimo e supera d’un balzo le contraddizioni, che pure esistono. A sinistra non c’è potere che tenga: prima serve prenderlo, il potere, e per farlo bisogna convincere tanta gente comune e non solo i militanti incazzati. Un Partito politico deve parlare a tutti i suoi potenziali elettori e non solo a chi è già convinto o a chi alla fine preferisce restare ai margini della scena. Nella galassia dei tanti soggetti centristi e sedicenti riformisti fuori dal PD, bisogna agire per favorire questo chiarimento, essendo evidente che senza il PD non si va da nessuna parte. La pressione deve essere costante, anche per fornire una sponda ai riformisti rimasti nel Partito che oggi fanno molta fatica a marcare le differenze. Inutile disperarsi per le giravolte di Conte con il suo M5S. Io credo che, se vogliono concorrere ad un’alleanza di Governo, sono loro che devono trovare i modi per proporsi e farsi accettare. Giuseppe Conte è molto affascinato dal potere e difficilmente si farà condizionare troppo dall’ala più ribellista ed inconcludente del suo Movimento. Il compito per tutti è difficilissimo e richiede molta saldezza, idee chiare, determinazione. E anche molta pazienza. Non ci sono scorciatoie. Se il PD vuole guidare una coalizione riformista per governare il Paese, deve assumere una postura riformista e non barricadera. Se invece preferisce coltivare l’antagonismo e correre dietro alle pulsioni movimentiste di una minoranza di elettori, deve cedere la guida a chi è in grado di convogliare il consenso della gente normale, che è nauseata dalla mediocrità del Governo e non trova finora un’alternativa valida. La persistenza dello stato patologico attuale rischia di uccidere ogni speranza di cambiamento. Non ce lo possiamo permettere.
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