In democrazia, l’alternanza di governo è una pratica sana e fisiologica, almeno fino a quando il sistema istituzionale non venga forzato e stravolto in una sorta di dittatura della maggioranza, appena camuffata da democrazia (la famigerata democrazia illiberale …). Purtroppo, è quello che sta succedendo in molti Paesi, finora insospettabili di pulsioni autoritarie. Possiamo, dobbiamo, sperare, e agire di conseguenza, affinché i valori democratici non vengano stravolti, magari con l’improvvido consenso di una maggioranza poco avveduta di elettori, ignara dei pericoli che sta correndo. In Italia il Governo pare solido come non mai, fondato com’è su un partito che rappresenta il 30% dell’elettorato (cioè quelli che votano … degli altri poco o nulla si sa …), coadiuvato da una corte di partiti un po’ riottosi, scalpitanti e litigiosi, ma alla fine sempre ben allineati. Questo vuol dire che a molti le cose stanno bene come stanno. A molti, ma non a tutti, per fortuna. Poi capita che una causa episodica, quasi casuale, faccia emergere un malcontento evidentemente molto diffuso e aggreghi nelle piazze un gran numero di persone poco classificabili socialmente, ma molto vogliose di farsi sentire. La distruzione di Gaza e l’azione dimostrativa della flottiglia per la Palestina, di per sé non un’azione così eclatante e già quasi dimenticata, arriva al fondo di una catena di disastri scatenati dalla feroce azione di Hamas giusto due anni fa e dalla conseguente spropositata reazione dello Stato di Israele. Il tutto dopo ottant’anni e più di tensione, di guerre, di trattati andati a male, di indicibili sofferenze di tutte le parti in causa. Senza alcuna conclusione ragionevole. Oggi in Israele c’è un Governo fortemente condizionato da quella destra fondamentalista che arrivò ad assassinare Yitzhak Rabin il 4 novembre di trent’anni fa, pur di boicottare il processo di pace (i famosi accordi di Oslo), già concordato con Yasser Arafat sotto il patrocinio di Bill Clinton. Ora quel Governo è stato costretto ad accettare una tregua, che dovrebbe diventare una pace, sempre che non prevalgano, da una parte o dall’altra, pulsioni guerrafondaie, purtroppo mai sopite. Merito di Trump, merito di Kushner e Blair, merito dei Paesi Arabi moderati, merito dell’alta esposizione mediatica, merito della mobilitazione di grandi masse in tutto il mondo, merito di chi sia sia, un risultato per ora c’è, anche se nessuno può garantire che durerà a lungo. Questa mobilitazione per l’auspicata pace in Palestina ha comunque riportato in molte piazze italiane ampie masse di persone di varia estrazione, giovani e meno giovani, certamente molti di sinistra, ma non solo, che hanno fatto sentire la loro solidarietà ai Gazawi, spesso dimenticando (colpevolmente) il pogrom del 7 ottobre di due anni fa e non riuscendo peraltro ad isolare del tutto le limitate ma molto visibili frange violente di casseurs che, da buoni provocatori, hanno fatto come al solito il gioco degli avversari. Per molti, ogni occasione è buona per sfogare istinti belluini mai sopiti e portare attacchi indiscriminati ad ogni espressione del vivere civile. Nessuna giustificazione è possibile. Finora, comunque, ogni tentativo di mettere un cappello politico di partito sulle manifestazioni non è riuscito. Chi ci ha provato a scopi elettorali ha fallito miseramente. Resta però che un sussulto di partecipazione c’è stato eccome, e sarebbe sciocco non riconoscerlo. Sussulti simili si registrano anche negli USA, in questo momento la democrazia più esposta alle pulsioni autoritarie: la democrazia più antica con la Costituzione modello delle democrazie occidentali, sono sotto attacco da parte di una nuova classe politica, supportata dagli strumenti tecnologici detenuti dai nuovi “padroni del vapore”, che pare mirare diritta ad una forma esplicita di autoritarismo. Cosa questi sussulti possano comportare non è ancora dato sapere, ma è confortante constatare come esista una parte non marginale di popolazione che reclama attenzione e visibilità. Il problema per la politica è capire cosa esprimano quelle persone e che risposta si possa dare loro, che non sia la generica e vuota solidarietà da talk show. Purtroppo, la tendenza attuale dominante è semplificare, schematizzare, estremizzare, cose che ai populisti riescono benissimo, essendo il loro unico modo di interpretare la società. Ma agli adulti (politicamente adulti, intendo dire) questo non basta. Considerare il popolo come un’entità indistinta da manovrare e trattare un tanto al chilo, è una tentazione forte per chi è capace di usare solo strumenti sommari, trinciare giudizi da social, spaccare il mondo tra amici e nemici. Per gli adulti no. Gli adulti si arrovellano su come interpretare quello che succede e come dare un indirizzo ai problemi che la gente, tutta la gente, affronta ogni giorno, dando una speranza di cambiamento, una possibilità di riscatto, un’occasione di crescita. Sto parlando della funzione del riformismo, ovvero di quella corrente politica, quel metodo politico, che non si accontenta, che cerca sempre soluzioni migliorative, che crede che il compito della politica non sia far finta di realizzare utopie e agitare bandiere, ma gestire la realtà, senza uscire da un quadro di riferimento di principi non negoziabili (libertà, uguaglianza, giustizia sociale). È dura la vita del riformista: molto meglio vivere da populista, massimalista, venditore di fumo, spacciatore di sogni, seminatore di odi e di certezze. Il riformista studia, analizza, propone, cerca strade anche contorte per realizzare ciò che propone, si ingegna di coinvolgere persone che come lui non si accontentano della superficie e scavano anche sotto la crosta dei problemi. Il riformista spesso è antipatico, perché si rifiuta di semplificare e invece si impegna, spesso con tigna, per ottenere risultati misurabili, anche piccoli, ma concreti. Il riformista spesso non è facile da seguire. Difficilmente le curve del tifo si entusiasmano per un ragionamento, spesso apprezzano la derisione, la delegittimazione, oppure un papagno ben assestato, il colpo ad effetto, anche se questo non lascia tracce o, peggio, peggiora la situazione. Il riformista deve farsi capire, deve imparare a parlare con un linguaggio diretto, semplice ma non banale, deve comunicare fiducia e capacità di intervento. Non può né rifugiarsi nelle fumisterie, né astrarsi sottolineando le sue specificità, né tantomeno rinunciare alla lotta in attesa di tempi migliori, che rischiano di non arrivare mai. Il riformista non è spaventato dalle responsabilità. Sa che se non ti esponi non ottieni nulla, che, se resti ai margini, più prima che poi vieni dimenticato. Il riformista non è mai una “vox clamantis in deserto”: la voce del riformista di solito si sente, forte e chiara. Il riformista non si lamenta né fa la vittima: per quello basta e avanza la capa del Governo. Il riformista cerca appoggi, cerca alleati, sa di non essere autosufficiente, ma presume (maledetto presuntuoso!) di poter condizionare con la forza delle idee e delle proposte anche alleati meno attrezzati e costruttivi di lui. È una vita dura, la vita del riformista. Tanto dura che spesso qualcuno si stufa e manda tutti al diavolo: s’incazza, non vota, qualche volta insulta, si rifugia in un pessimismo esistenziale che non porta da nessuna parte. Lui lo sa, ma fa finta di dimenticarlo, e a volte lo dimentica davvero. Il riformista è un progettista, e come progettista deve sempre essere pronto alle varianti di progetto, qualora si rendano necessarie. Non difende un’idea integralmente (e ottusamente) anche fino al punto di non vederne realizzata neanche una parte. Non è integralista, né fondamentalista. Il riformista costruisce case e ponti, mattone dopo mattone, trave dopo trave, con olimpica pazienza. E ri-costruisce, quando necessario. Se si stanca, beve un goccio di buon vino con gli amici, si rifocilla e riparte di buona lena. Il problema è: ma davvero esiste un siffatto riformista?
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