Lo spiacevole, ma anche goffo, spettacolo dell’implacabile PM Nicola Gratteri che, in diretta televisiva, declama un’intervista, poi rivelatasi falsa, in cui Giovanni Falcone avrebbe condannato la separazione delle carriere, ci conferma che la campagna elettorale per il prossimo referendum sarà un vero e proprio inferno per tutti quelli che ancora si illudono di poter parlare e trattare la politica come una cosa da adulti senzienti e non come il tifo calcistico che contrappone le curve degli stadi. Direte voi: ma ormai che differenza c’è? Nella nostra società mediatica, schiava dei social, è tutto così: è quasi impossibile ragionare con la testa e non con la pancia, stare ai fatti, argomentare con logica posizioni anche divergenti, confrontarle, cercare, ove possibile, convergenze, mediazioni, approfondimenti, tutte quelle cose noiosissime che usavano fare gli adulti (parlo di testa, non di età anagrafica …) di una volta. Tutte cose che sono invece aborrite da chi preferisce sventolare bandiere, gridare slogan, mentire in diretta, insultare l’opponente, magari anche impedirgli di parlare, forse picchiarlo, o chi non disdegna neppure di tirare una sassata ad una vetrina o imbrattare un muro del centro, semmai di un monumento che è lì da trecento anni a testimoniare la civilizzazione della nostra imperfetta società. Purtroppo, anche questo referendum nasce male, condizionato com’è da una situazione di contorno che nulla ha a che fare con il contenuto della consultazione. Fu così per il referendum del 2016 (quello del Senato, del Titolo V, del CNEL, …) che venne impropriamente stravolto in un referendum su una sola persona, in quel caso Matteo Renzi, iperattivo Presidente del Consiglio, che aveva osato mettere le mani su troppi nodi irrisolti della politica italiana. Storia passata, non torniamoci su. Ma quella storia non ha insegnato nulla, anzi sta diventando un modello … Ogni referendum va personalizzato, come se fosse l’ultima ordalia … alla faccia del contenuto. Tanto per cominciare, il titolo che tutti conosciamo – Referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati – non è fedele al vero contenuto della consultazione. Le carriere dei magistrati sono già separate e quelli che cambiano toga sono quattro gatti ogni anno (poche decine, numeri irrilevanti, sui circa 9.000 magistrati totali). Il vero contenuto innovativo della riforma (che piaccia o meno) è lo sdoppiamento del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) in due organi, uno per i magistrati requirenti e uno per i giudicanti, e la creazione di un’Alta Corte di Giustizia cui delegare l’aspetto disciplinare per entrambe le funzioni. È una innovazione forte, nessun dubbio, cui si aggiunge la nomina dei membri per sorteggio (da definire ancora nei dettagli con legge ordinaria). Questo è il cuore della riforma, che non nasce dal nulla, o dalla fantasia di Nordio o di Meloni, ma da decenni di dibattito serissimo, nel quale persino autentici eroi della Magistratura come Falcone e Borsellino hanno preso posizioni diverse. Non è roba da tifoserie contrapposte e vocianti. È roba da specialisti. Però adesso ci tocca decidere: sì, no, astensione. La riforma è la diretta conseguenza di una riforma fondamentale di tanti anni fa (legge Vassalli/Pisapia, gente di sinistra, del Codice di Procedura Penale, nel 1989) che stabilì, in ossequio alla Costituzione e sulla scia di quanto vigente in tutti i Paesi occidentali, il passaggio dal processo cosiddetto “inquisitorio” a quello cosiddetto “accusatorio”, dove l’accusa, rappresentata dal PM, e la difesa, rappresentata dall’avvocato difensore, si confrontano in aula davanti ad un giudice terzo (ed eventualmente una giuria popolare). Nella procedura altri giudici sono coinvolti, il Giudice delle Indagini Preliminari (GIP), quello dell’Udienza Preliminare (GUP), il Giudice del Riesame, tutti giudicanti e non inquirenti, che devono valutare le indagini svolte dal PM. Questo rito è operativo da oltre trent’anni e nessuno si sogna di cambiarlo. Peccato che esso presupponga un sostanziale e netto distacco tra il giudice inquirente e quello giudicante: mestieri diversi. Invece oggi valutazioni, avanzamenti di carriera, trasferimenti, vengono gestiti da un organo in cui non c’è distinzione tra i vari tipi di giudice, in più dominato dalle famose “correnti”, ovvero le riproduzioni dei partiti nell’ambito della Magistratura. Come può quindi sentirsi tranquillo un GIP a bloccare un famoso PM, mediaticamente sovraesposto, sapendo che poi quello può decidere della sua carriera? Non è evidente che si crea una oggettiva soggezione del giudice giudicante verso il PM? Uno come Gratteri, che vive in televisione, sui giornali, nei teatri, che pontifica in ogni dove, chi lo ferma? Un GIP alle prime armi, rischiando di metterselo contro? Su, siamo seri ... Ma di questo nessuno parla. Si preferisce insistere su un argomento-fantoccio, come quello del potenziale controllo dell’Esecutivo sui PM (cosa peraltro prevista da sempre in fior di Stati democratici, a cominciare dalla vicina Francia). È l’argomento principe agitato nei dibattiti, ma è semplicemente FALSO. L’autonomia e l’indipendenza della Magistratura sono garantite dall’art. 104 della Carta, articolo che NON viene toccato dalla riforma. Quindi, il rischio è tutto nella testa di chi lo paventa. Intendiamoci, non escludo affatto che molti (forse anche a sinistra) lo auspicherebbero, qualcuno forse anche con intenzioni maligne, ma nella riforma questa modifica NON c’è. Punto. Se qualcuno volesse affrontarla, dovrebbe avviare un nuovo processo di riforma secondo quanto chiede l’art. 138: quattro passaggi in aula e nuovo referendum. Roba per il prossimo decennio. Eppure, non si parla d’altro. E nessuno che dica: basta, parliamo della riforma com’è scritta. Inoltre, come se non bastasse, i promotori del NO vogliono ripetere l’esperienza del 2016: politicizzare il referendum, illudendosi di legare ad esso la sopravvivenza del Governo. Simul stabunt simul cadent: ha funzionato alla grande con Renzi: funzionerà anche con Meloni. Peccato che Meloni la lezione l’ha imparata, e non ripeterà quanto fece Renzi. Così, se vincerà, le regaleranno un trionfo personale; se perderà, non si schioderà da Palazzo Chigi e tirerà diritta fino alle elezioni della primavera 2027, per vincerle. Questo è poco, ma sicuro. Quindi, sarebbe interesse di tutti svelenire il clima, spogliare il referendum da ogni connotato politico e votare secondo coscienza sul merito del quesito, ognuno secondo convinzione. A questo punto però bisognerebbe conoscerlo bene, il quesito, e decidere di conseguenza. La decisione non è facile, visto che nemmeno Falcone e Borsellino erano d’accordo, ma tant’è. Il problema vero, di fondo, è che su queste materie non bisognerebbe coinvolgere i cittadini, che non hanno gli strumenti adatti per deliberare, come non ce l’avevano nel 2016, nel 2020 per il numero dei parlamentari, ed in tante altre occasioni. Non è monarchia o repubblica, nemmeno il divorzio o l’aborto, o la fecondazione assistita, cose che sono sulla pelle di tutti i cittadini. Sui temi complessi, così si finisce per votare con criteri diversi dal merito, oppure per non votare affatto. La democrazia diretta è bella, riempie la bocca e scalda il cuore, ma richiede una competenza, un approfondimento, che non è assolutamente alla portata di 40 milioni di cittadini votanti. Ora sento già le critiche: ottimati, aristocrazia, oligopolio, ... Ma se ci togliamo il prosciutto dagli occhi, non è difficile capire che, se eleggiamo (e paghiamo) una classe politica per governare, per fare leggi, per gestire la società, ebbene quella classe politica deve prendersi le sue responsabilità e decidere. E poi farsi giudicare dai cittadini. Delegare al popolo le scelte difficili diventa populismo, non è democrazia, ed espone, soprattutto di questi tempi, al travisamento dei problemi, alla loro manipolazione, al condizionamento mediatico. Cosa che stiamo vedendo tutti i giorni e che vedremo sempre più spesso nei prossimi mesi. Non un bello spettacolo …!
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