Una ventina di anni fa (2004) Philip Roth (1933-2018), uno fra i più importanti scrittori americani dei nostri tempi, ebreo newyorkese, pubblicò il romanzo “Il complotto contro l’America”. Molti anni dopo (2020), dal romanzo fu tratta anche una pregevole miniserie televisiva con John Turturro e Winona Ryder, trasmessa in Italia da SKY e anche dalla RAI. Chi di Voi, cari lettori, sa di cosa sto parlando avrà già capito dove voglio andare a parare, chi non lo sa, ha un’ottima occasione per conoscere un’opera e uno scrittore essenziali per la letteratura moderna. Consiglio, tra l’altro, i suoi Pastorale Americana, Lamento di Portnoy, Nemesi, e molti altri libri ancora. Il complotto contro l’America è un romanzo di fantastoria (quelli veri la chiamano ucronia), nel quale si immagina che le elezioni presidenziali del 1940 in USA vengano vinte non da F. D. Roosevelt al suo terzo mandato (allora si poteva ancora), ma dal famoso Charles Lindbergh, primo trasvolatore solitario dell’Atlantico (1927), al centro anche di uno degli episodi più raccapriccianti della storia criminale americana (1932), ovvero il rapimento e l’uccisione del figlioletto Charles Jr., di meno di due anni, caso che venne risolto da un nascente FBI, sotto la guida del mitico e potentissimo J. Edgar Hoover, che ne restò a capo fino al 1974. Per gli amanti del genere, a questo delitto fa anche riferimento la trama di Assassinio sull’Orient Express di A. Christie, con il suo Hercule Poirot. In effetti Lindbergh era all’epoca ben noto per le sue esplicite simpatie hitleriane e godeva di una enorme popolarità, sia a causa della sua impresa aviatoria che del tragico lutto che lo aveva colpito. L’immaginaria vittoria di Lindbergh, che nel romanzo avviene sull’onda popolare di un montante “non interventismo pacifista” nelle faccende europee e di un diffuso sentimento nazionalista, razzista e antisemita, getta nella disperazione una folta comunità ebraica del New Jersey e provoca reazioni molto contrastanti all’interno di una famiglia della media borghesia, divisa tra chi resiste, chi simpatizza e chi collabora apertamente (proprio il rabbino …). Il libro descrive in modo molto incisivo il clima di tensione creato dall’ascesa di Lindbergh e dei suoi accoliti, la violenza politica e razzista, i tentativi di isolare gli ebrei dagli americani (ma gli ebrei in questione si sentono fortemente americani …!), l’esaltazione popolare per l’eroe aviatore, biondo e bello, padre colpito nei suoi affetti più profondi. Scritto oltre vent’anni fa, il libro descrive con precisione la vulnerabilità di una parte della società borghese americana di quel tempo, disposta a barattare la libertà e la tolleranza con il sovranismo, l’orgoglio nazionalista, la diffidenza per il diverso, negro o ebreo che fosse. Trump in quell’inizio millennio (2004) era ancora il ricco e rampante play-boy palazzinaro newyorkese guidato del suo mentore, l’avvocato maccartista Roy Cohn, quello che lo convinse che l’unica verità è sempre e solo quella che sostiene lui … precetto al quale Trump continua ad attenersi scrupolosamente. Ma evidentemente Roth già conosceva molto bene i meandri della società americana, nella quale i sentimenti oggi definiti trumpiani sono sempre stati presenti, semmai sottotraccia, latenti, fino ad esplodere nella follia che abbiamo tutti sotto gli occhi fin dal 6 gennaio 2021, data dell’assalto a Capitol Hill. Dall’analisi di Roth risulta evidente che oggi Trump non è un alieno, una singolarità piombata sulla scena all’improvviso, ma è l’espressione di un’America profonda che finora era rimasta rintanata, pur se numericamente consistente, forse solo un po’ in soggezione rispetto alla parte più munita di strumenti critici e culturali, ma che ha comunque covato un sentimento di rivalsa per decenni, per poi trovare rappresentanza nella improbabile classe dirigente oggi al potere. Nel romanzo di Roth l’ondata di violenza e di follia dura solo pochi mesi: poi l’aviatore scompare nei cieli, forse un incidente, forse rapito dagli alleati tedeschi delusi, quindi si tengono nuove elezioni, le vince F. D. Roosevelt e la Storia riprende il suo corso reale. Ma la realtà odierna, temo che invece non finirà così presto, che non sarà solo una breve sbandata, perché Trump e i suoi stanno realizzando con determinazione un ribaltamento storico di valori al quale gli americani democratici dovranno fare fronte, riesumando, riorganizzando e rilanciando tutti i principi finora alla base della loro società. Non sarà cosa breve, né facile, perché sotto c’è della sostanza, anche se non è piacevole. Settantasette milioni di americani hanno votato Trump, sapendo benissimo chi fosse e cosa pensasse di fare: non è stato un equivoco, né un moto di rabbia o un’isteria. È stato il prevalere di un’altra America. Noi europei (in particolare noi riformisti progressisti) abbiamo sempre coltivato un’immagine oggettivamente parziale (ed a volte anche mitica) dell’America, quella di Hollywood, di Kirk Douglas e Dalton Trumbo contro il senatore McCarthy, di scrittori come Hemingway, Faulkner, Steinbeck, Scott Fitzgerald, o Kerouac, Salinger, fino a Capote e lo stesso Roth, della musica nera, John Coltrane, Miles Davis, Thelonious Monk, o bianca di Gershwin o Bernstein o Dylan, dei grandi architetti o dei grandi politici illuminati come il reverendo King, i fratelli Kennedy, fino a Clinton ed Obama. Ma quell’America delle grandi pianure, delle montagne del Nord e delle campagne del Sud, delle province isolate e delle periferie, è sempre stata lì, silenziosa, poco partecipe del fermento culturale, certamente operosa e pronta a sfruttare le enormi possibilità che il dinamismo della società americana ha sempre concesso, ma altrettanto pronta a rinchiudersi in un egoismo protezionista e nazionalista che non è mai scomparso, malgrado le prove di generosità offerte nei due conflitti mondiali ed anche dopo. E malgrado anche la politica imperialista praticata senza scrupoli al tempo della guerra fredda. Sono sempre state due Americhe, distanti e poco inclini a comprendersi. Anche i grandi Repubblicani del passato, come Reagan, o Bush (il primo), perfino il furbo "Tricky Dick" Nixon, avevano sempre mostrato una sostanziale tolleranza ed un rispetto non formale per la Costituzione (Nixon si dimise), che aveva salvaguardato le caratteristiche di fondo della società americana. Adesso, e finora, Trump ha rinunciato a qualsiasi paravento: aggredisce, alza i toni, esagera, ma i suoi atti sono sempre dirompenti, volutamente eclatanti, spettacolari, come a sottolineare, con furia iconoclasta, la volontà di rottura con un passato completamente ripudiato e rinnegato. Passerà? Il tempo smorzerà i toni, o lo scontro arriverà oltre ogni immaginazione? Difficile dirlo. Molto dipenderà dallo stato delle cose, dai riflessi sulla gente delle politiche adottate. In un suo libro molto recente (On Leadership) Tony Blair insiste sul fatto che alla fine gli elettori giudicano sempre i risultati di un’Amministrazione, come e quanto questa ha cambiato in meglio o in peggio le vite delle persone. I valori in sé, se non supportati dai risultati, non risultano determinanti, anche se in realtà costituiscono il propellente di una società. Trump sta giocando un gioco molto pericoloso, usa la propaganda in modo assolutamente spregiudicato, ma comunque porterà la responsabilità delle conseguenze. Noi, da questa parte dell’Atlantico, dobbiamo prendere atto del clima profondamente mutato (anche "questo" clima …) e cercare di reagire per difendere i nostri valori ed il nostro stile di vita, se davvero ci teniamo. L’Europa, incluso il Regno Unito malgrado la Brexit, sta dando in questi giorni incoraggianti segni di reazione: Macron non ha nulla da perdere (non potrà essere rieletto), Starmer ha tutto da guadagnare (deve superare la sciocchezza della Brexit), Merz, appena arrivato, non si chiamerà fuori, Meloni (ahinoi!) forse sì: la sua mancanza di standing è davvero imbarazzante. Mai come adesso è forte il rimpianto per tutte le occasioni di unità sprecate, da De Gasperi ed Adenauer ad oggi, fino all’ultima, piccola ma significativa, assurdità di non avere portato al Parlamento Europeo una lista che si chiamava proprio Stati Uniti d’Europa, con un programma conseguente al nome. Qualcuno non ci ha creduto, ha anteposto meschini interessi personali, ma intanto continua comunque a pontificare, mentre qui corriamo il rischio di affogare nelle nostre miserie. Ma questo è un altro discorso …
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